La valigia e il “corlet”

SOSTIENI L’ASSOCIAZIONE BELLUNESI NEL MONDO. DIVENTA SOCIO

È l’ultimo figlio di questa famiglia di emigranti, Lorenzo, nato alla fine del 1959 da un contrattempo – come si dice in Francia – che racconta cosa ha sentito e vissuto di questa storia. La storia di una famiglia che ha lasciato l’Alpago per cercare altrove una vita migliore. Tutto ciò che è scritto è vero ma, come in ogni storia di emigrazione, la trasmissione orale dei fatti a volte si prende delle libertà sulla precisione delle date.

Tutto ebbe inizio con la nascita di Sebastiano il 5 maggio 1916 e di Anna il 31 dello stesso mese e dello stesso anno. Nacquero a Codenzano, frazione di Chies d’Alpago, in due case separate solo da un piccolo sentiero. Era ovvio che dovessero incontrarsi. Nel 1918, dopo la Prima guerra mondiale, mio nonno paterno, Angelo Zanon, partì con la moglie Anna, nata a Venezia, le due figlie Maria e Raymonda, nate in Francia in un precedente periodo di emigrazione, e con mio padre, di due anni, per lavorare nelle cave di Civet Pommier d’Euville, nella Lorena. Lì c’erano anche i fratelli di mio nonno e tanti altri emigranti bellunesi. Mia nonna gestiva una mensa e cucinava per i lavoratori. In Francia diede alla luce altri sei bambini.

Nel 1928 mio nonno si ferì sul lavoro con un cavo arrugginito e morì durante la notte. Aveva 42 anni. A quel tempo non c’era l’assistenza sociale e mia nonna dovette tornare in Italia con i suoi figli piccoli, diventati nel frattempo nove. A Codenzano la famiglia le disse che anche loro erano troppo poveri per poterla aiutare. Un po’ di sostegno glielo diedero i fratelli di Venezia. Le due sorelle maggiori, Maria e Raymonda, trovarono lavoro per aiutare la madre. Mio padre, dodicenne, e suo fratello Marcello vennero mandati a studiare in seminario a Feltre. Non so come mia nonna sia riuscita a far studiare mio padre fino ai diciott’anni, so solo che fu una serva di Mussolini (almeno secondo una cugina dell’Alpago) e che anche un conte di Venezia che amava tanto il mio papa provvide alla sua educazione facendogli da padrino. In seminario a Feltre c’era anche lo studente Albino Luciano, futuro Papa Giovanni Paolo I, che mio padre incontrò senza dubbio.

Quando lasciò il seminario, mio padre trovò la sua vicina d’infanzia Anna, i cui magnifici occhi azzurri non lo lasciarono indifferente. Insomma, se ne innamorò. Svolse il servizio militare come Alpino a Belluno e prese parte alla Seconda guerra mondiale. In tutto, sette anni di gioventù al servizio dell’Italia. Fu un eroe di guerra. Durante un combattimento all’assalto di una collina, su 360 uomini ne rimasero in vita solo 16. Fu in questa occasione che ricevette la “Croce di Guerra ” a riconoscimento del suo merito.

Durante l’adolescenza mia madre emigrò a Napoli, dove lavorò come serva in una ricca famiglia di commercianti. Si spostò poi a Roma, prendendosi cura dei figli di un colonnello. Durante la guerra fu precettata due volte per andare a lavorare come stagionale sull’isola di Rügen, nel Mar Baltico. Nel corso del conflitto i miei genitori ebbero una figlia, Luigia, nata nel 1944 a Codenzano. Si sposarono per procura durante la guerra. Mio padre era in prima linea e fu uno zio che accompagnò mia madre al municipio. In seguito celebrarono il matrimonio anche in chiesa.

Per la cronaca, un ragazzo falegname era innamorato di mia madre e non potendo sposarla le fece un regalo: un arcolaio, che in dialetto “alpagot” si chiama “corlet”. Mio padre, come tutte le famiglie Zanon di Codenzano, aveva un soprannome: Zanon “Corletta”. Ecco perché il falegname disse a mia madre: «Hai scelto di sposare un “Corletta”, quindi ti do un “corlet” in modo che tu pensi sempre a me». Questo “corlet” non ha mai lasciato la famiglia, restando con mia madre per tutta la vita. Oggi lo custodisce mia sorella Luigia.

Lorenzo Zanon “Corletta”

Il “corlet” del 1944

Norberto Birchler. Uno svizzero dal cuore bellunese

SOSTIENI L’ASSOCIAZIONE BELLUNESI NEL MONDO. DIVENTA SOCIO

Norberto Birchler

Sono state le storie della community di Bellunoradici.net, il socialnetwork dell’Associazione Bellunesi nel Mondo. Questa è la storia di Norberto.

Mi chiamo Norberto Marco Birchler, ho 59 anni e sono bellunese da parte della mamma, Lucilla Cerato, emigrata alla fine degli anni ’50 in Svizzera, dove ha incontrato mio padre, cittadino svizzero. Sono dunque nato binazionale, anche se ho ricevuto il passaporto italiano solo nel 2003, a seguito di una sentenza delle Corte Suprema italiana che mi ha riconosciuto come figlio nato da una cittadina italiana alla quale era stata ritirata, in modo illegale, la nazionalità. Ho dovuto aspettare vent’anni per ottenere, dal punto di vista amministrativo, la cittadinnza italiana, conseguita con lo ius sanguis.

Sono sposato, ho due figlie (Lorenza ed Estel) e due figli (Andreï e Máté). Dopo il ginnasio ho studiato Lettere a Ginevra (Linguistica italiana, Lingua tedesca e Storia medievale). Dal 1984 al 2000 ho insegnato Tedesco e Storia in una scuola media.
Dal 2000 al 2003 ho lavorato per il Dipertimento della Difesa, della Protezione della popolazione e dello Sport, come specialista per il disarmo e il controllo degli armamenti in Europa.

Dal 2003 al 2018 mi sono impegnato, con il mio nuovo lavoro, nella lotta contro il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo.
A partire dal mese di luglio 2021 lavorerò per SO-FIT, un’associazione che sorveglia – per conto della FINMA (autorità di vigilanza sui mercati finanziari, ndr) – i gestitori di patrimonio e i trustee in modo prudenziale.

Come cittadino svizzero ho prestato servizio nell’esercito per vari periodi, a partire dal 1981 fino ad oggi. Dapprima come soldato, poi, essendo diventato ufficiale, ho comandato come capitano una compagnia di fucilieri di montagna (alpini). Promosso maggiore nel corpo degli Ufficiali di Stato Maggiore Generale ho comandato un gruppo ospedale. Attualmente sono colonnello SMG, incorporato nello Stato Maggiore delle Forze terrestri.
Dal punto di vista politico, sono membro del partito liberale-radicale svizzero e dal 2012 sono stato eletto membro del Consiglio municipale (organo legislativo) di Collonge-Bellerive (Ginevra). Ne sono stato il presidente da giugno 2017 a maggio 2018.
Dal 2009 sono anche giudice al tribunale ginevrino del lavoro. In Svizzera questo è possibile (lavoro di base, più carriera militare, politica e come magistrato) per via del sistema di milizia nel quale una persona dona del tempo per la communità, soprattutto nel settore miltare, nella più pura tradizione alpina.
Sono socio della Famiglia Bellunese di Ginevra e amico degli Alpini.

Sei nato e cresciuto in Svizzera. Qual è il tuo legame con l’Italia e il Bellunese? Come questo legame ti ha formato?
Con i miei genitori siamo sempre andati in Italia per le ferie, un po’ al mare, ma sopratutto a San Vito di Arsiè. Per me andare in Italia voleva dire andare nella “casetta nel Bosco”, in montagna, e non in spiaggia. Avendo sentito mia mamma parlare in dialetto con i nonni e il resto delle famiglia lo ho appreso anch’io e continuo a parlarlo ancora oggi.

Hai mai pensato di trasferirti a Belluno?
Non avendo nessuna proprietà in Italia, devo dire che non mi sono mai posto la domanda. Però, se avessi avuto il passaporto italiano dopo essermi laureato, avrei fatto la naja in Italia. Fino alla laurea si andava tre o quattro volte all’anno in Italia (febbraio, Pasqua, estate e, a volte, per Natale).

La Svizzera continua ad essere un Paese che attrae molti italiani? Un suggerimento per un giovane bellunese intenzionato a trasferirsi in terra elvetica.
A seconda di dove si trasferisce è necessario parlare la lingua locale (francese o tedesco). Oggi anche in Svizzera, se non si è qualificati, è difficile trovare lavoro.
Secondo te dove dovrebbe puntare la provincia di Belluno per il suo sviluppo?
Turismo di montagna ripensato in modo da favorire la permanenza prolungata dei turisti; cercare di mantenere in provincia le industrie esistenti e non mollare mai di fronte alle idee e proposte che vengono da Roma!

Fai parte anche della Famiglia Bellunese di Ginevra. Secondo te cosa può fare l’Associazione Bellunesi nel Mondo per i propri soci e per le nuove generazioni di bellunesi all’estero e di discendenti?
Difficile rispondere a questa domanda: ho portato i miei bambini a molti pranzi sociali (bellunesi e alpini), li ho portati in Italia (anche al mare), ma soprattutto in provincia di Belluno (tutti loro parlano italiano), ma per la terza generazione la terra di origine, in una realtà come la Svizzera, dove molti provengono da parecchi Paesi diversi, non è cosi facile da trovare.

Lino Rota. La memoria di Marcinelle

SOSTIENI L’ASSOCIAZIONE BELLUNESI NEL MONDO. DIVENTA SOCIO

Si dice che la storia sia maestra di vita, ma molte volte, purtroppo, la storia ha la memoria corta. O meglio, gli uomini che la fanno, hanno la memoria corta. Nel corso degli anni, dei secoli, sono state innumerevoli le stragi che hanno colpito l’umanità: a volte sono state provocate dalle guerre, altre volte da calamità naturali o dall’incuria dell’uomo.

Nella maggior parte dei casi questi eventi si ricordano negli anniversari, con interventi politici che talvolta sono semplicemente appuntamenti di routine in un mondo dominato dalla velocità e dall’interesse. Si tiene un breve discorso davanti ai monumenti che riportano sfilze di nomi e di date, si appoggia una corona di fiori e poi via al prossimo impegno. 

Ma chi non dimentica sono i familiari delle infinite vittime, per i quali il tempo si è congelato nel dolore per la perdita di un figlio, di un padre, un marito, un fratello. E poi ci sono coloro che quella particolare strage l’hanno vissuta, o perché hanno avuto la fortuna di essere stati graziati, oppure per aver partecipato ai soccorsi, al recupero di chi è rimasto ferito o peggio ha perso la vita. 

Questa mia riflessione è nata nel mese di aprile di due anni fa, quando gli Amici della Sezione Alpini di Vigonza Padova mi hanno invitato a partecipare al compleanno di un ex minatore che già conoscevo, ma solo telefonicamente, perché mi aveva dato una mano per raccogliere i dati per il mio libro Carne da miniera dedicato ai minatori morti in incidenti nelle miniere belghe. 

La persona straordinaria alla quale voglio dedicare quest’articolo si chiama Lino Rota e il 3 aprile di quest’anno ha compiuto ben 92 anni. Abita a Nembro con la moglie Mariuccia, una donna dolcissima, il suo braccio destro di tutta la vita. 

Ma perché voglio parlarvi di lui e cos’ha di straordinario Lino? Beh, per me tutta la sua vita è straordinaria, ma l’apice lo ha raggiunto quando nel 1956, esattamente l’8 agosto, è stato chiamato come soccorritore alla miniera Bois du Cazier a Marcinelle, in Belgio, nel tragico teatro della terza più grande strage che ha coinvolto i nostri avi, dove hanno trovato la morte ben 262 uomini, dei quali 136 italiani. 

Tutti noi abbiamo sentito parlare, letto o visto film di questa immane tragedia che ha reso martiri tutti questi uomini (il più giovane aveva 14 anni) condannati a una morte orrenda tra fiamme e fumo da un patto scellerato tra i due Stati, Italia e Belgio. Ma una cosa è sentirne parlare o leggerne, un’altra è viverla. 

Lino, il minatore italiano entrato nel ’48 nel bacino carbonifero di Charleroi, il soccorritore, il porion poi, dal sorriso limpido, oggi ha occhi saggi e sereni, ma questi suoi occhi hanno visto l’orrore puro, la disperazione di tante, troppe donne, ha visto piangere troppi orfani, ha respirato l’odore della morte, ha rischiato la vita per cercare qualcuno vivo nell’inferno. 

Lino da giovane nel bacino di Charleroi

Lino è stato davanti a me, a raccontarmi il buio dei pozzi, mentre i tanti che hanno vissuto quegli infiniti giorni di fuoco e fumo come sconosciuti eroi non ci sono più. È uno degli ultimi preziosi testimoni e merita di essere ringraziato ancor oggi, oltre che essere ascoltato, soprattutto dalle nuove generazioni. Inoltre, dovrebbe essere onorato come si onorano gli eroi veri: perché lui, dopo aver visto l’inimmaginabile a Marcinelle, non ha mollato tutto, ma ha continuato a lavorare in miniera, non un mese o un anno, ma fino al ’74, quando è tornato in Italia.

Ma dal suo cuore i ricordi del carbone, delle gallerie, dei vagoncini, delle lampade, non mai è riuscito a cacciarli e così, pezzo su pezzo, con il supporto della sua Mariuccia, a Nembro ha costruito il “suo” museo, riassunto completo di una vita sì di sacrificio dentro e sopra una miniera, ma soprattutto di coraggio, di dignità, di amore. Il museo, allestito in una cavità della roccia e denominato dal Comune di Nembro “Piazzetta dell’Emigrante”, è stato ricostruito come l’entrata di una miniera di fronte alla quale poteva trovarsi un emigrato italiano.

Nel corso di tutti questi anni è stato fortemente arricchito di testimonianze preziose e dal grande valore storico (attrezzi, materiali, documenti e foto), grazie all’impegno della famiglia Rota nel recuperare oggetti direttamente in Belgio. Tutti gli elementi che compongono il museo sono stati catalogati come “Collezione Lino Rota.

Lino davanti al museo creato da lui e Mariuccia

Un riassunto visivo, che merita di essere visitato con lo stesso spirito con il quale si visita una chiesa: rispetto e riflessione. 

Io quel 3 aprile, al pranzo, ho visto un momento Lino commuoversi e vedendo quelle lacrime solcare il suo viso, per un attimo ho rivisto mio padre, anche lui minatore, e così impulsivamente l’ho stretto a me immaginando di stringere lui. Per immaginare di ringraziarlo dopo tanti anni che è lontano da me. 

Ecco, questi sono i veri eroi: Lino, mio padre, mio zio e tutte le migliaia di minatori di tutto il mondo. E anche se le istituzioni non sempre se ne ricordano, siamo noi figli di questi uomini, spesso abbandonati dalle loro patrie, che ci hanno lasciato morendo sotto terra comi i topi, o soffocati negli ospedali, nell’indifferenza dei grandi politici, che li ammiriamo e li ringraziamo. 

Per questo io dico: grazie Lino per quello che sei stato e per quello che sei, grazie Mariuccia per il tuo amore e l’aiuto che gli dai, e grazie a voi amici Alpini di Vigonza per avermi voluto insieme a condividere il compleanno di un Uomo Vero che non dimenticherò. 

Walter Basso

Mariuccia e Lino

Le mille avventure di Antonio Nadalet

SOSTIENI L’ASSOCIAZIONE BELLUNESI NEL MONDO. DIVENTA SOCIO

I racconti sulle vicissitudini dei nostri migranti hanno il potere di indurmi sentimenti contrastanti e sempre profondi. Da un lato la pena per queste persone, costrette ad abbandonare la casa e gli affetti, dall’altro l’ammirazione per il loro coraggio e la loro laboriosità, dimostrata e riconosciuta ovunque. Ascoltando queste storie di sacrificio e dignità provo una sorta di orgoglio per la mia “bellunesità”. 

La vita di mio nonno materno, Antonio Nadalet, classe 1888, di Pises di Ponte nelle Alpi, è una storia che merita di essere ricordata. Quarto di cinque fratelli e orfano di madre, dovette imparare presto a sbrigarsela da solo. Già all’età di sette anni iniziò la sua carriera di emigrante. Da solo, al seguito delle numerose maestranze bellunesi, raggiunse a piedi la Valsugana, all’epoca territorio austriaco, per essere impiegato nei lavori di costruzione della ferrovia. Il suo compito era portare acqua agli operai. Si dormiva in fienili e in baracche di cantiere. Il compenso un piatto di minestra e un pezzo di pane. Viste con gli occhi di oggi, sono situazioni che fanno rabbrividire, ma nella condizione di miseria nera in cui gravava il Bellunese all’indomani dell’Unità d’Italia, anche una bocca in meno da sfamare era un aiuto per la famiglia. 

Agli inizi del Novecento, poco più che ragazzo, si imbarcò come mozzo sui piroscafi che attraversavano l’Atlantico tra Genova e New York. Col tempo ascese anche al ruolo di aiuto cuoco, ma il lavoro era pur sempre difficile. Da un punto di vista fisico perché si passavano dieci mesi all’anno disturbati continuamente dal rollio e dal movimento dell’oceano, da un punto di vista psicologico perché si doveva convivere con il dramma dei migranti che, nelle stive della terza classe, affrontavano il viaggio della speranza verso l’America in condizioni disumane. In ogni tragitto si sviluppavano epidemie e mediamente si celebravano quattro o cinque funerali di mare. Il viaggio poteva durare anche quaranta giorni e, in determinate stagioni, al largo delle coste americane, c’era l’insidia degli iceberg.

Il ritorno era più sereno, frequentato soprattutto dai passeggeri delle prime classi. Molti migranti, pur partiti con l’idea di ritornare in patria, finivano col mettere radici in America per l’angoscia di dover riaffrontare un mese e più di mal di mare. Mio nonno era forte e non pativa il mal di mare, ma la vita da marittimo non poteva durare a lungo e dopo tre anni decise di fermarsi in America. New York, anzi Nuova York come era solito chiamarla, divenne la sua città. Qui mise a frutto l’esperienza di aiuto cuoco e trovò impiego in diversi ristoranti. La sua natura, però, lo spinse ad affrontare anche periodi di lavoro nelle miniere della Pennsylvania o a fare il boscaiolo nel Vermont e nel Quebec. Gli affari andavano discretamente e con il suo lavoro poteva garantire sicurezza anche alla famiglia a Ponte Nelle Alpi.

Ritratto di Antonio. La fotografia è stata scattata in uno studio fotografico di New York poco prima del suo rientro in Italia, probabilmente nel 1918.

In Europa, nel frattempo, soffiavano venti di guerra e tutti lo dissuadevano dal rientrare alla vigilia del primo conflitto mondiale. Il ritorno a casa si verificò finalmente al termine del 1918. Qui decise di mettere su famiglia e sposarsi con mia nonna, Maria De Battista, di La Secca. Si sistemarono provvisoriamente a Col di Cugnan, in attesa di coronare il loro sogno: una casa colonica, con tanta campagna e boschi da coltivare, così da garantire un futuro ai figli. Acquistarono numerosi terreni alla Vena d’Oro e vi costruirono la casa dove trascorrere la loro vita. Nacquero anche i primi figli, Ester e Angelo, ma le cose non andarono come sperato. L’Italia ritrovata all’indomani della guerra era in condizioni peggiori di come era stata lasciata e con il ricavato della terra si poteva al massimo sopravvivere. Qui riaffiorò lo spirito avventuroso del nonno. Sentì e lesse di gente che ha aveva fatto fortuna cercando oro nelle Americhe e, con una decina di compaesani di Cugnan e Losego, decise di partire alla volta del Perù. Doveva essere un’esperienza breve, qualche mese, al massimo un anno, perché ormai aveva moglie e due figli. Gli eventi andarono diversamente. La loro meta fu la foresta amazzonica dove, a detta di molti, l’oro, i diamanti e gli smeraldi tappezzavano i corsi d’acqua. La realtà era ben diversa. 

Di oro poche tracce, in compenso il clima era insopportabile e i pericoli ovunque. Tutti gli eroici cercatori contrassero la febbre malarica. Alcuni non sopravvissero, altri abbandonarono in tempo e ritornano a casa. Mio nonno, benché fiaccato dai continui attacchi febbrili, non si arrese, abbandonò l’Amazzonia e si spostò sul più salubre altopiano andino. Continuò a cercare l’oro, ma questa volta nelle viscere delle montagne, a oltre 4000 metri di quota. Acquisì da una società nordamericana la concessione per l’esplorazione e lo sfruttamento di un filone aurifero. Con la dinamite e il piccone, aiutato da alcuni indio dei villaggi sottostanti, estrasse la roccia ricca di oro. Periodicamente organizzava una colonna di muli caricati con il materiale e raggiungeva una località prestabilita nel fondovalle, a due giorni di cammino, dove l’oro veniva conferito e pagato. Era un viaggio pericoloso, sull’orlo di canyon senza fondo, da fare imbracciando 24 ore su 24 il fucile, per i continui attacchi di predoni di ogni sorta. Tuttavia era un rischio da affrontare perché l’attività era remunerativa. 

Il continuo contatto epistolare con casa e i frequenti trasferimenti di denaro convinsero anche la nonna ad accettare un periodo di assenza più lungo del preventivato. In fin dei conti, c’era la possibilità di sistemarsi sul serio. A un certo punto, però, la corrispondenza si arrestò. Per mesi la nonna non ricevette notizie. Dovette essere un’esperienza dolorosissima, perché nei suoi racconti mi ricordava sempre la pena con cui erano guardati, alla messa della domenica, i miei due zii, ancora bambini, considerati orfani ormai da tutti. La malaria stava minando il fisico del nonno e gli attacchi febbrili erano sempre più frequenti e insopportabili. Per questo decise di abbandonare tutto, raggiungere un ospedale per curarsi, riacquistare forze e poi rientrare in Italia. Con un viaggio di una settimana, legato al mulo per non precipitare dai dirupi quando la febbre saliva a quaranta, raggiunse una missione nei pressi di Lima. Lì venne curato immediatamente con il chinino, ma successe un imprevisto. Il clima della fascia costiera peruviana è estremamente secco e in quella zona non pioveva praticamente da anni. Tuttavia, dopo pochi giorni dal suo ricovero, si verificò un tremendo uragano, mai ricordato a memoria d’uomo. La missione costruita in fango e terra si sciolse letteralmente per le piogge. L’intera capitale lamentò vittime e danni incalcolabili. 

Il nonno si ritrovò per strada in condizioni di salute drammatiche. Riuscì fortunatamente a fare scorta di chinino per contenere il male, ma non trovò una sola nave su cui imbarcarsi alla volta di una qualsiasi destinazione europea. Capì che in una città in preda alle epidemie e al colera, priva della possibilità di comunicare con l’esterno, non poteva restare e decise di raggiungere un porto sulla costa atlantica del continente, in Colombia o in Venezuela. Fu la prova più difficile della sua pur avventurosa vita. Attraverso Ecuador e Colombia, raggiunse Maracaibo, in Venezuela. Un viaggio di oltre due mesi, compiuto su battelli fluviali, treni di fortuna e a piedi. Qui si imbarcò sul primo piroscafo per l’Italia. A salvarlo furono le scorte di chinino e la forte fibra. Dopo cinque mesi senza notizie, e con l’angoscia di ricevere in ogni momento il fatidico telegramma che stronca ogni speranza, un bel giorno un trionfante postino, salito di corsa alla Vena d’Oro da Castion, annunciò alla nonna lo sbarco a Genova del nonno. Fu la fine di un incubo: lei potè riabbracciare il marito e i figli poterono conoscere il padre partito quando erano ancora in tenerissima età. Alla partenza pesava oltre ottanta chili, ora non raggiungeva i cinquanta. 

Trascorse i successivi due anni alternando lunghi soggiorni all’ospedale di Belluno e periodi di riposo a casa. Non era in grado di lavorare e l’onere del sostentamento della famiglia gravava tutto sulla nonna. Mancava inoltre qualsiasi forma di assistenza sanitaria e le lunghe degenze in ospedale avevano costi esorbitanti. Per affrontare la situazione fu costretto a vendere boschi, terreni agricoli e pure la sorgente delle acque minerali. Cosa più importante, comunque, gli attacchi febbrili si andavano sempre più rarefacendo e pian piano le forze ritornavano. Il solo lavoro della terra non poteva però garantire un futuro certo alla famiglia e qui iniziò la seconda vita da emigrante del nonno, questa volta in Europa. Fu un’emigrazione stagionale: boscaiolo in Austria e Baviera, tuttofare in Svizzera, minatore in Belgio, operaio in Olanda e Francia. Non c’è praticamente lavoro in cui non si sia cimentato e nazione che non abbia visitato. Nel frattempo nacquero altri due figli: nel 1927 mio zio Ferruccio, nel 1928 mia mamma. Avrebbe voluto darle il melodico nome di Aurelie, conosciuto nei Paesi francofoni, ma il solerte impiegato dell’ufficio anagrafe, ligio alle leggi fasciste, lo trascrisse in un improbabile, ma italico, Orelida. 

Il nonno comprese che la famiglia e mia nonna, per quanto donna forte ed energica, non potevano privarsi per periodi troppo prolungati della sua presenza. Vinse la ritrosia di lei ad abbandonare la Vena d’Oro e la convinse ad affrontare, tutti insieme, l’esperienza di emigrazione. Il Paese prescelto fu proprio la Francia, ritenuta più idonea ad accogliere una famiglia di italiani. Da solo si recò oltralpe, verificò varie situazioni e opportunità lavorative e alla fine individuò come meta la cittadina di Laifour, a Nord di Charleville Mezieres, nel dipartimento delle Ardenne, al confine con il Belgio. La nonna con tutti i figli lo raggiunse a distanza di qualche mese. Si sistemarono in una piccola ma dignitosa casetta messa a disposizione dalla grande industria siderurgica presso cui il nonno lavorava come operaio. Condussero una vita modesta ma serena e senza privazioni. Il nonno si fece apprezzare anche per la padronanza con le lingue: parlava correntemente l’inglese, il tedesco, lo spagnolo, oltre al francese e all’italiano. Questo lo portò ad avere spesso un ruolo importante nel gestire l’organizzazione delle attività lavorative, dove potè rapportarsi con le maestranze multietniche e con la numerosa comunità spagnola direttamente nelle rispettive lingue. A casa, la sera, l’unica parlata consentita era invece il dialetto bellunese. 

Laifour, primi anni Trenta. La famiglia di Antonio e Maria con i fligli Ester, Angelo, Ferruccio e Orelida. All’epoca non era ancora nato l’ultimogenito, Ottorino.

La famiglia si integrò molto bene nella nuova vita e i figli frequentarono con profitto la scuola francese. Furono anni ricordati con molto piacere e allietati dalla nascita, nel 1934, dell’ultimo figlio: mio zio Ottorino. A interrompere la loro serenità sopraggiunse il secondo conflitto mondiale. Laifour era posta all’estremità settentrionale della linea Maginot, la grande struttura realizzata dai francesi per difendere i confini dagli storici nemici tedeschi. Nel 1939, temendo l’attacco tedesco, la Francia si armò. Non si ipotizzava, però, che l’invasione potesse avvenire da Nord, attraverso l’Olanda e il Belgio. Mia mamma ricorda ancora in modo nitido il giorno in cui le lezioni, a scuola, vennero improvvisamente interrotte e i ragazzi mandati di corsa a casa. Nel frattempo gli altoparlanti, nelle vie, annunciavano che di lì a breve sarebbero potuti arrivare gli invasori. Vennero concesse alla popolazione due ore per riunire le famiglie, raccogliere lo stretto indispensabile e raggiungere un piazzale. Lì sarebbero stati smistati e destinati, come profughi di guerra, a varie regioni della Francia lontane dal confine. La meta fissata per la famiglia Nadalet fu la cittadina di Penvenan, in Bretagna, non distante da Brest. 

Il tragitto venne compiuto con camion militari e treni allestiti allo scopo. Si può immaginare la confusione e lo stato d’animo della gente. Ad aggravare la situazione c’era l’assenza del nonno, trattenuto dall’azienda per imballare e trasferire, in fretta e furia, tutti i macchinari in un altro stabilimento nei pressi di Tolosa, all’altro capo della Francia. L’impossibilità di comunicare fu un dramma nel dramma. Si partì, ma si comprese subìto che le colonne militari e i convogli di treni erano facile preda degli attacchi dei caccia tedeschi. Assistettero all’esplosione dei camion che li precedevano e le linee ferroviarie vennero sistematicamente interrotte. Il consiglio fu di procedere a piedi, lontano dalle strade, dormire nelle chiese o nei fienili isolati, evitando di formare grossi assembramenti. Riposarono nella grande Cattedrale di Reims e nelle principali chiese e monumenti del Nord della Francia. 

Questa esperienza, probabilmente drammatica, vista con gli occhi di un bambino assume un altro aspetto. Nei ricordi di mia mamma non traspare angoscia o dolore. Il suo racconto è una sorta di avventura compiuta con i fratelli e con tanti altri ragazzi. Dopo venti giorni raggiunsero la Bretagna. L’avanzata tedesca fu fulminea e tutto il Nord della Francia venne occupato rapidamente. Di lì a pochi giorni furono in Bretagna. Il nonno si riunì alla famiglia solo a distanza di un altro mese, dopo aver vagato, in pena, alla cieca, per tutto il Paese. Ora erano finalmente tutti insieme. Inizialmente vennero ospitati, con tanti altri profughi, in un collegio, colonia marina. Poi ebbero a disposizione una porzione di casa in cui mangiare e trascorrere la giornata, per rientrare a sera al ricovero comune. A parte questo, la vita in Bretagna non si rivelò così male e il clima fu mite. La parola fame nemmeno concepita, perché la terra era generosa e il mare, con le sue incredibili basse maree, rappresentava un self-service in cui approvvigionarsi di ogni prelibatezza. Si pranzava con ostriche, granchi poro e astici. Mancava solo la polenta! 

Il nonno, da cittadino italiano, era un alleato dei tedeschi e per di più parlava la loro lingua. Tutto questo gli garantì una condizione di privilegio sul lavoro. La famiglia, pur consapevole che la situazione era provvisoria, trascorse due anni sereni. Ogni cosa però ha una fine e nel 1941, al compimento del ventesimo anno, mio zio Angelo fu soggetto agli obblighi militari. Gli accordi tra i Paesi dell’Asse prevedevano che l’arruolamento di cittadini all’estero avvenisse nel Paese di origine. I tedeschi lo invitarono pertanto a raggiungere Belluno. A questo punto, però, la famiglia decise di seguirlo e far ritorno in patria. Dovettero prima passare per Laifour, per perfezionare le pratiche per il rientro. Qui scoprirono che la loro casa, lasciata in fretta due anni prima, era stata completamente saccheggiata e svuotata. Compresero anche che le condizioni della Francia, e dell’intera Europa, non erano quelle dell’isola felice Bretagna. La fame era una presenza costante, ma a dare speranza c’era la prospettiva di avere alla Vena d’Oro una casa accogliente e dei terreni da coltivare per sfamarsi. 

Lo zio, nel frattempo, arrivato a Belluno venne prontamente arruolato nella Brigata Cadore e inviato in Bosnia e Montenegro. Lo rividero solo nel 1946. Il successivo rientro della famiglia fu complesso. Una volta a Belluno non poterono ritornare nella loro abitazione, data in affitto insieme ai terreni. Soltanto alla fine dell’anno potevano riaverne la disponibilità. In più, non potevano nemmeno contare sul raccolto di quella stagione. Si sistemarono provvisoriamente all’albergo al Ponte della Vittoria, in attesa del trasferimento dei loro risparmi, trattenuti alla frontiera e inviati a Roma. Li riebbero solo a distanza di parecchi mesi, abbondantemente decurtati per non meglio precisati oneri e prelievi del regime. Il nonno, per quanto avanti con gli anni, non si perse d’animo e, memore del suo passato di boscaiolo teleferista, raggiunse in piena guerra la Carinzia per la sua ultima esperienza di emigrazione. Pian piano le cose si sistemarono, ritornarono in possesso della loro casa alla Vena d’Oro e cominciarono a coltivare la campagna. Con l’armistizio dell’8 settembre del 1943, lo zio Angelo, alla pari di molti commilitoni, si aggregò con la Brigata Garibaldi al fianco dei partigiani di Tito. Al rientro in patria, a guerra finita, venne mandato, senza neanche passare per casa, in Sicilia, a sedare i moti indipendentisti sull’isola. Al ritorno a Belluno cercò un lavoro in patria. 

Le condizioni dell’Italia erano drammatiche e trovare un impiego era un miracolo. Partì allora per le miniere di carbone del Belgio, non lontano da Laifour. Qui sposò una ragazza figlia di emigranti veronesi. Poi si trasferì in Francia, per andare a vivere definitivamente nel posto in cui aveva trascorso la sua infanzia e la gioventù. Nel corso degli anni fu sempre un punto di riferimento, anche sindacale, per i numerosi emigranti italiani in Francia e in Belgio, dove partecipò ai soccorsi delle vittime della tragedia di Marcinelle. Anche lo zio Ferruccio, spirito libero e animo coraggioso, non riuscì ad ambientarsi in Italia. Già alla fine del 1945, da clandestino, attraversò le Alpi in modo avventuroso. Venne rinchiuso in un campo di concentramento dove sperimentò l’odio verso gli italiani. Il ricordo di una Francia che l’aveva accolto generosamente vent’anni prima svanì. Seppe comunque riscattarsi e raggiungere risultati professionali di tutto rispetto. Si stabilì a Salindres, in Occitania, vicino alla città di Nimes. Mio zio Ottorino, dopo aver lavorato in tutto il Nord Italia, si stabilì in provincia di Bergamo, sul Lago d’Iseo. Mia mamma e la sorella Ester non abbandonarono più Belluno. 

Il nonno Antonio si spense serenamente nella sua casa alla Vena d’Oro nel 1958, tre mesi dopo la mia nascita. Fino alla fine manifestò i segni della malaria contratta quarant’anni prima in Perù. Avrei tanto desiderato conoscerlo personalmente. Avrei voluto sentire i racconti che faceva la sera a mia mamma, seduta sulle sue ginocchia. Racconti di mare con onde alte come montagne, di grattacieli immensi, di scimmie impertinenti, di pappagalli multicolori e di serpenti lunghi dieci metri. Nelle sue storie mai un accenno alle esperienze difficili e ai sacrifici. Una vita affrontata con entusiasmo, con la mente aperta al mondo, con il cuore rivolto a Belluno. Mia nonna Maria, presenza fondamentale e fonte di equilibrio e serenità per tutti, lo seguì undici anni dopo. Entrambi riposano insieme nel cimitero di Levego. 

Lorenzo Pertoldi

Una vita in memoria. La storia di emigrazione di Elza Martini

di Luz Marina Colombo Gewehr – Maceio, Alagoas (Brasile)

SOSTIENI L’ASSOCIAZIONE BELLUNESI NEL MONDO. DIVENTA SOCIO

Un sogno, un viaggio, una nuova vita. Così inizia la storia di emigrazione della famiglia Martini, proveniente dalla frazione di Fianema, nel comune di Cesiomaggiore. A raccontarla è Elsa Martini Colombo, mia nonna. 

Partita da Genova nell’aprile del 1910, la famiglia si stabilì a Santa Maria, Rio Grande do Sul, nel Comune di Restinga Seca. Giovanni Ricciotti Martini lavorava nella coltivazione di tabacco, Elvira e i figli (Emilio di 12 anni, Irma di 9, Elsa di 5 e Alice di 3 mesi, nata in Brasile) aiutavano nelle faccende domestiche, cercando di adattarsi alla nuova realtà.

All’inizio della Prima guerra mondiale, Giovanni decise di rimanere a lavorare in Brasile, mentre Elvira diceva di non voler morire lì. Così, nel 1914 ritornò in Italia in compagnia dei suoi quattro figli. «Eravamo già in guerra, il viaggio è durato più del previsto perché la nave doveva navigare lungo la costa per sfuggire ai sottomarini e ai bombardamenti», ricordava Elsa. 

Al suo ritorno in Italia, Elvira dovette affrontare con coraggio gli anni della guerra, proteggere i suoi figli e provvedere al loro sostentamento. Gli abitanti più facoltosi della zona andarono verso il Milanese, ma i piccoli contadini rimasero nei villaggi intorno al Monte Grappa, dove si svolse gran parte dei combattimenti e dove furono esposti a bombardamenti, saccheggi e conflitti. Furono anni difficili. Affermava Elsa: «Essendo un territorio di combattimento, durante l’occupazione austriaca tutto il grano e il vino delle botti furono buttati via. In campagna, le coltivazioni venivano confiscate, non rimaneva nulla. Dovevamo stare zitti, loro comandavano». 

Alla fine della guerra, Giovanni fece ritorno in Italia, riprese le sue attività di Consigliere Comunale per l’Agricoltura di Cesiomaggiore e si prese cura della famiglia, provvedendo all’educazione dei suoi figli affinché imparassero un mestiere. Elsa parlava di suo padre con ammirazione. «Era un uomo colto, sapeva leggere e scrivere bene, era di bella presenza». Elvira morì nel 1924 a causa di un infarto. Aveva 45 anni. Giovanni, che diceva sempre di voler tornare in Brasile, decise di inviare Emilio per raggiungere i suoi parenti che si trovavano nel municipio di Tangará, stato di Santa Catarina, dove acquistare un pezzo di terra e preparare tutto per il suo ritorno insieme alle tre figlie.

Partirono per il Brasile nell’aprile del 1925, arrivando nel Porto di Santos, nello stato di São Paulo. Il viaggio continuò poi in treno verso la destinazione finale, con una sosta a Ponta Grossa, nello stato del Paraná, dove Giovanni doveva prelevare dei soldi per cominciare una nuova vita. Raccontava Elsa: «Mio padre era un uomo di mondo, sapeva tutto, ma sulla via del ritorno alla stazione ferroviaria fu derubato. Gli portarono via tutti i soldi. Aveva paura, parlava di quello che aveva vissuto, ma non era sicuro di cosa fosse successo».

A Tangará, Emilio e la famiglia lo aspettavano. Nei giorni successivi, la notizia del furto provocò una svolta nei piani, nell’armonia e nella vita della famiglia Martini. Emilio partì per Rio Grande do Sul in cerca di lavoro. Giovanni, come raccontava Elsa: «Cominciò ad impazzire. Usciva la mattina presto, tornava tardi la sera. Quanti pianti alla ricerca del padre. Così andammo avanti per un anno, il tempo in cui rimanemmo nella fattoria, finché un giorno non lo vedemmo più».

Elsa e le sue sorelle parlavano solo italiano, non erano in grado di gestire la loro vita, erano ancora molto giovani. «All’inizio avevamo l’aiuto della famiglia, ma dovevamo trovare la nostra strada, e quindi andammo a vivere presso delle famiglie sconosciute per aiutare nelle faccende domestiche e avere un posto». Fu vivendo a Tangará con la famiglia Tomazzi, discendente di italiani, che Elsa conobbe André Colombo, suo marito, di mestiere calzolaio. Con lui visse sessantadue anni ed ebbe cinque figli. 

Dopo vent’anni, un giorno Elsa ricevette un messaggio: le si diceva che un uomo era arrivato nel negozio in città, chiedendo di lei. «Cominciai subito a tremare, ma dissi ad André: “Andiamo a vedere.” Quando arrivammo gridai: “Padre! Siete tornato!” Lui mi abbracciò, pianse a più non posso. Lo invitai a casa mia, ma lui mi rispose: “Non ci vengo, nessuno ha il diritto di comandare le mie figlie”. Dopo qualche giorno venne di nuovo a trovarci e rimase per un po’ di tempo a casa».

Giovanni era già vecchio, i capelli bianchi, aveva 77 anni. Parlava sempre di quello che era successo. Aveva un umore difficile, usciva senza dire dove andava e quando sarebbe tornato. Rimase con i figli per un po’, fino a quando non si seppe più niente di lui. A quel tempo i trasporti e le comunicazioni erano difficili. Emilio negli anni cercò le sue sorelle, e dopo trent’anni incontrò Elsa. Ricordava lei: «Quando sollevai gli occhi e vidi che era Emilio, quasi impazzii dall’emozione».

Dopo questo incontro, i fratelli cominciarono a frequentarsi più spesso. Per Elsa la famiglia era il bene più prezioso. Il marito, i figli, gli amici, lavorare a maglia per passare il tempo, non voleva nient’altro. Così Elsa continuò a vivere con semplicità e saggezza. «Ho affrontato la vita, ho imparato a vivere bene con quello che avevo. Ho trovato un modo per dimenticare, lasciarmi la tristezza alle spalle, guardare avanti pensando sempre al meglio». È deceduta a 96 anni, ancora lucida. 

Massimo Fornasier. Un matematico tra Austria, USA e Germania

SOSTIENI L’ASSOCIAZIONE BELLUNESI NEL MONDO. DIVENTA SOCIO

Massimo Fornasier

Massimo Fornasier è indubbiamente uno che ha i numeri. E non solo perché con i numeri ci lavora. Professore di Analisi Applicata e Numerica presso la Technische Universität München a Monaco di Baviera dal 2010, nel 1999 si è laureato in Matematica all’Università di Padova, dove nel 2003 ha conseguito il Dottorato in Matematica Computazionale. Attualmente si occupa di matematica applicata al trattamento dei dati digitali e all’elaborazione dell’informazione, con studi sulle proprietà matematiche delle reti neurali artificiali per un ambito in costante sviluppo: l’intelligenza artificiale.

Professor Fornasier, da dove nasce la sua passione per la Matematica?
Fin da bambino ho sempre provato un certo piacere nel risolvere problemini matematici e mi capitava di rifletterci tra me e me, senza necessariamente esservi impegnato. Era come un gioco alla fine del quale la ricompensa era aver trovato la soluzione esatta, che è assoluta e non ulteriormente smentibile. In ogni caso, la matematica era una curiosità intellettuale più che una passione. Poi al Liceo, grazie alle lezioni del mio insegnante, il professor Enrico Righetto, ho cominciato a intuire che questa materia poteva essere più sofisticata e interessante, e ho scelto di proseguirne lo studio all’università.

A proposito di università, in quel periodo si è occupato di un progetto particolare, il “Progetto Mantegna”. In cosa è consistito?
Nel marzo del 1944 un bombardamento alleato colpì la chiesa degli Eremitani a Padova distruggendo la Cappella Ovetari, le cui pareti erano state affrescate da Andrea Mantegna. I quasi centomila frammenti degli affreschi furono raccolti e custoditi. Negli anni vi furono tentativi di restauro, sempre falliti per la complessità della soluzione del puzzle.
Il “Progetto” aveva come scopo il riposizionamento, innanzitutto virtuale, dei frammenti degli affreschi, mediante metodi matematici e informatici basati sul trattamento delle immagini digitali. Le idee del progetto sono nate dalla collaborazione di due docenti del Dipartimento di Fisica dell’Università di Padova, i professori Domenico Toniolo e Giuseppe Galeazzi. Mi sono unito a loro nel 1998 semplicemente come collaboratore volontario, dato che avevo concluso gli esami ed ero in attesa di iniziare la tesi. Non avendo trovato immediatamente un tema, ho deciso di non sprecare tempo e di impegnarmi in un lavoro di ricerca.

Qual è stato il suo personale contributo all’iniziativa?
Inizialmente il mio ruolo è stato quello di tradurre il metodo matematico elaborato dai due professori in un software efficiente che potesse essere implementato da un calcolatore. Così ho impostato i primi esperimenti che consentissero di verificare la correttezza e l’efficacia del metodo, metodo che poi ho formalizzato da un punto di vista matematico. Alla fine, questo è stato l’argomento su cui ho svolto la mia tesi di laurea.

Il metodo funzionava?
Con il professor Toniolo abbiamo esteso i nostri risultati sperimentali a un vero e proprio progetto di ricerca applicabile su tutti i frammenti per il completo restauro degli affreschi. Il nostro laboratorio dedicato al “Progetto Mantegna” è stato finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo nel 2001 e gli affreschi sono stati infine restaurati a partire dal 2006, proprio sulla base dei nostri risultati.

Dopo il Dottorato, nel 2003 ha fatto la sua prima esperienza di ricerca all’estero, presso l’Università di Vienna. Come è stato il passaggio dal mondo accademico italiano a un’università straniera?
Pur avendo fatto dei progetti di ricerca in Italia con risultati importanti, nelle prime fasi della mia carriera il riconoscimento accademico mi è arrivato soprattutto all’estero. Una delle ragioni fondamentali è che la matematica in Italia è suddivisa in settori disciplinari distinti, che sono rappresentati da scuole spesso geograficamente individuate. Per questa ragione, chi si occupa di una materia interdisciplinare come la matematica applicata al trattamento dei segnali digitali e dell’informazione fa molta fatica a venir apprezzato in Italia, un aspetto che rende il nostro Paese meno attraente di altri contesti scientifici.

E all’estero?
In Austria, come anche in Germania e negli Stati Uniti, la matematica applicata risulta meno settorializzata. Per questa ragione ha saputo più rapidamente assorbire nuove direzioni di studio, come l’applicazione all’ambito digitale. Nel 2012, però, ho ottenuto il premio annuale della Società italiana di matematica applicata e industriale come riconoscimento dei miei contributi a diversi ambiti della matematica. Questo per dire che anche in Italia la matematica sta piano piano rompendo i muri al suo interno.

Al di là dell’ambito professionale, come è stato l’impatto con l’emigrazione?
La mia decisione era maturata constatando le rigidità del sistema accademico italiano, ma anche il fortissimo e crescente sviluppo del progetto europeo. Negli anni del mio dottorato di ricerca tra Padova e Vienna sono entrati in vigore gli accordi Schengen, è stata messa in circolazione la moneta unica e c’è stato l’allargamento dell’Unione a Est. Tutto mi stava dicendo che l’orizzonte futuro, anche scientifico, non era più l’Italia ma, quanto meno, l’Europa. E io, da giovane ricercatore, ho risposto alla chiamata, decidendo in modo consapevole di tentare una carriera, e una vita, europea.
L’abbraccio con un mondo nuovo…
Diciamo che l’entusiasmo mi ha sostenuto in un percorso che è stato durissimo. Dal mio approccio ideale mi sono dovuto calare nella realtà nazionale prima austriaca e poi tedesca, dove, pur europei, si è stranieri e comunque in minoranza. In ogni caso, non mi sono mai considerato come un Gastarbeiter (lavoratore ospite, Ndr), ma come un pioniere della nuova Europa. Ancora oggi non mi sento di servire la Germania come ospite, ma come italiano che impone la sua visione culturale e scientifica a beneficio europeo e non solo tedesco. Questo non significa che la mia visione sia stata compresa nei contesti in cui ho operato. In Austria ho percepito spesso che non avrei avuto le medesime opportunità di carriera di altri colleghi austriaci e mi sono dovuto imporre molto per potermi affermare. In Germania l’atteggiamento è più neutro e il mio contributo al contesto universitario viene meglio accettato. Ma la cultura e la socialità in Germania, ancor più che in Austria, sono diverse rispetto all’Italia, e la familiarità che si prova nei contesti italiani, anche lavorativi, mi manca molto e spesso.

Tra il 2006 e il 2007 ha lavorato alla Princeton University. Altro trasferimento, questa volta addirittura oltreoceano. Che ricordi ha di questa esperienza negli Stati Uniti?
Princeton è una delle migliori università al mondo in ambito scientifico. È stata un’esperienza molto importante per il mio percorso di carriera, ma anche una conferma fondamentale di come la mia visione scientifica e la mia materia di studio fossero di rilievo per gli sviluppi a venire. Quindi, se in Italia i miei risultati di matematica applicata al trattamento dei segnali digitali e dell’informazione non erano stati pienamente apprezzati, tanto che in quel periodo avevo tentato diversi concorsi senza successo, nel contesto americano ho avuto la prova che il mio percorso scientifico stava puntando in avanti e avevo ragione a proseguire caparbiamente in questa direzione. Ho avuto il privilegio di lavorare con matematiche e matematici di altissimo livello come Ingrid Daubechies e Ronald DeVore e ho potuto condividere con loro uno spirito pionieristico e aperto in ambito matematico. Porto ancora con me quelle conferme e quello spirito che cerco di comunicare ai miei allievi.

C’è qualcosa che le manca dell’Italia o del Bellunese e che porterebbe con sé per “migliorare” il contesto in cui attualmente vive e lavora?
La socialità e la familiarità mi mancano moltissimo. In Baviera i rapporti sul lavoro sono spesso molto professionali, ma anche molto asettici. Io sono convinto che sia particolarmente difficile intraprendere imprese complicate o rischiose senza avere accanto dei collaboratori affiatati anche sul piano umano. Infatti, da un punto di vista di sistema certamente la Baviera funziona molto bene, ma le eccellenze garantite dagli individui sono più difficili da creare.
I bellunesi conoscono l’impegno nel lavoro, ma anche la leggerezza della vita e dello stare insieme agli altri in modo impegnato e spensierato. In Germania, o forse più precisamente in Baviera, la gente sembra sempre troppo seria e poco affabile anche quando si occupa di cose davvero di poco conto e anche quando l’impegno individuale è misurato. Il far fatica stracciandosi il cuore dalla passione e dall’entusiasmo è una cosa sconosciuta in Baviera. Io porto con me l’ispirazione che l’Italia mi ha dato.

E all’inverso, dalle tante esperienze fatte all’estero, cosa porterebbe come “regalo” all’Italia?
Vorrei tanto che anche in zone come Belluno i giovani di talento decidessero di non partire o di tornare. È vero che andare all’estero mi ha dato molte opportunità e consentito di realizzare alcuni dei miei talenti. Ma vuoi mettere farlo tra le nostre montagne? Sarebbe un sogno se si aprissero più opportunità nella nostra valle a richiamo dei giovani. Sarebbe bello, un giorno, poter costruire delle realtà di studio e ricerca all’avanguardia anche nelle nostre zone, in modo da trattenere o attrarre i giovani e offrire loro strumenti e incentivi con cui innovare o creare delle realtà produttive nuove.

Che consiglio darebbe ai giovani bellunesi?
Ascoltare davvero se stessi per capire quali siano i propri talenti e le proprie inclinazioni. Impegnarsi, senza paura di fallire: il lavoro alla lunga paga sempre, sia in termini di soddisfazione che di ritorno concreto. E poi, portarsi sempre le radici nel cuore, testimoniandole senza omologarsi ovunque si vada.

Simone Tormen

Open chat
1
Ciao, come possiamo aiutarti?
Skip to content
Design by DiviMania | Made with ♥ in WordPress