Come si impara ad apprezzare le cose

da | 24 Set 2021 | 0 commenti

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Sono di Tambre, ma nata a Rho di Milano nel 1940, perché i miei genitori erano anch’essi emigranti. Poi tornarono in Alpago e nel 1953 costruirono casa. Così si trovarono pieni di debiti e io a quindici anni dovetti andare a servizio per aiutare un po’ i miei, che si sacrificarono tanto.

Mio padre faceva il cardatore di lana. Mia mamma era anch’essa a servizio a Milano. Io trovai un posto a Padova. Ricordo la mattina in cui partii, alle undici, per arrivare a Padova alle sei di sera con la nebbia e un buio profondo. Era il mese di novembre. Non sapevo come trovare il posto a cui ero destinata. A forza di chiedere, giunsi in via S. Pietro 44 e poi su all’ottavo piano di un palazzo. Fui ricevuta senza tanta accoglienza. C’erano una vecchia zitella, due professori e due bambini.

Dovevo prendere due secchi di carbone per tre volte al giorno, facendo le scale perché non c’era l’ascensore. Quando arrivavo in cima ero stanca morta, non ne potevo più. Per giunta non mi davano da mangiare abbastanza, così scrissi ai miei e mia mamma venne a prendermi. Lì quindi ci rimasi solo un mese.

Poi trovai un posto a Belluno. Ero contenta, essendo più vicina a casa. Purtroppo mi ero illusa! I padroni erano soltanto due anziani con dodici stanze da pulire di fino, perché la padrona controllava se facevo bene. Però la mia camera da letto era giù nella cantina, vicino alla caldaia. Una stanzetta di due metri per tre con una piccola finestra che sembrava una grata, più o meno una piccola prigione, con un rumore assordante per tutta la notte.

Dopo due mesi lì mi abituai un po’. Un giorno, mentre la signora era fuori, mi misi a cantare. Non mi ero accorta che nel frattempo lei era rientrata… Alla fine, mi diede una lavata di capo, dicendomi che in casa d’altri non si canta. Scoppiai a piangere.

Un giorno venne a trovarmi mio padre. La padrona era fuori. Gli dissi: «Papà, vieni a vedere dove dormo!». Quando vide la stanza si mise a piangere e mi disse: «Dalle gli otto giorni e vieni a casa!» e così feci.

Poi trovai un posto in Svizzera, in filanda. Stavo in convitto dalle suore. Là mi trovavo bene, sia dal punto di vista del lavoro che dell’alloggio. Ero contenta. Eravamo tante ragazze, tutte venete e tutte minorenni. Vista la giovane età, le suore non ci consentivano di uscire la sera. Le altre erano arrabbiate per questo motivo e così decisero di andare dal capo della fabbrica a reclamare.

Chiesero anche a me di protestare, ma io mi rifiutai: per me andava tutto bene, non sentivo nessuna esigenza di uscire la sera. Non l’avessi mai fatto! Praticamente divenni la pecora nera. Mi dicevano parolacce a non finire, non ne potevo più, finché decisi di andare via e per fortuna trovai un altro posto dove finalmente fui proprio felice, tanto è vero che ci rimasi un anno e mezzo, fino a quando tornai a casa per sposarmi.

Questa fu la mia emigrazione. Però tutto mi servì per essere contenta di ogni cosa e per imparare ad apprezzare ciò che ho, poco o tanto.

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