Un sorriso che illumina il mondo

La sua vita racconta di ostacoli superati, di coraggio per intraprendere nuove strade e di amore per il lavoro. Lui è Gianluigi Sebben, meccanico nato nel 1932 a Fonzaso. Unico figlio maschio in una famiglia con altre tre sorelle, fin da giovane ha assunto una grande responsabilità e ha vissuto da vicino la guerra quando era adolescente. Le esperienze di quel periodo lo hanno segnato restando ancora oggi indelebili…

“Diciassette morti”. Il podcast

Io e il Bonetti siamo entrati in galleria da Stabiascio poco prima di mezzanotte. Il Bonetti era venuto a chiamarmi dicendo che avevano telefonato da Locarno per dire che in tre non erano usciti da Robiei. Il Bonetti mi ha anche detto che gli era stato chiesto se avevamo delle maschere antigas. “Come mai?”, gli ho chiesto, ma non mi ha saputo rispondere. Insomma siamo entrati…

Mia nonna balia

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Non ho un ricordo visivo della mia nonna paterna Maria, ma ho un forte ricordo di lei racchiuso nel mio cuore. Non l’ho mai vista di persona, ma di lei ho sentito molto parlare, sempre sottovoce, il che me la rendeva un po’ misteriosa. Forse anche per questo sentivo di volerle bene.

In occasione di una recente Festa della Donna ho ascoltato alcune testimonianze sulle donne bellunesi, specie quelle così coraggiose che nel secolo scorso lasciavano i propri cari – marito e figli, anche neonati – per “mettersi a balia” presso famiglie facoltose. Potevano in questo modo contribuire economicamente al mantenimento della famiglia, oppure pagare un debito. Così ho ricordato la sua storia. Mia nonna Maria era una di queste donne coraggiose.

Nonno Francesco faceva il carpentiere e lavorava a Primolano per gli Austriaci. Aveva comprato un piccolo maso per sistemare i due figli più grandi. Forse aveva fatto un debito che non riusciva a pagare. Nonna Maria aveva da poco partorito due gemelli maschi, il parto ero stato un po’ faticoso, ma lei, giovane, si era ripresa bene e i piccoli godevano di buona salute.

Furono sistemati presso una vicina che a sua volta aveva da poco partorito perché la nonna aveva deciso di partire per Milano. Avrebbe fatto la balia presso un famiglia benestante, convinta di ritornare appena si fosse concluso lo svezzamento. Ma passato più di un anno, la signora presso cui lavorava si trovò in attesa di un altro bimbo e mia nonna dovette prolungare la sua permanenza senza poter tornare a casa, neppure per una breve visita.

Qui la storia si tinge di mistero. Si sa che anche mio nonno partì per Milano, ci fu una grande lite e Maria non tornò più in famiglia. I figli, ormai svezzati, venivano accuditi da una zia nubile, tuttavia lei contribuì al loro mantenimento per lungo tempo.

Questa difficile situazione incise molto sulla vita famigliare, tanto che i gemelli non perdonarono mai alla madre l’abbandono e, nonostante lei avesse più volte offerto di raggiungerla a Milano, crebbero con un forte senso di disagio e un vivo rancore nei suoi confronti.

Quando nel 1940 vennero mandati al fronte, prima di partire i gemelli (uno di loro era mio padre) decisero di incontrare nonna Maria, ma non fu un incontro sereno. Entrambi ne rimasero delusi e non riuscirono a riconoscerla come madre.

Dopo sei anni mio padre ritornò dalla guerra. Eravamo tutti contenti, anche il nonno. Però mancava la nonna. Io avevo sette anni e volevo conoscerla. Decisi allora di scriverle la mia prima lettera, con cui la invitavo a conoscere i nipoti ormai numerosi. La risposta arrivò poco tempo dopo. A scriverla non era lei, ma una conoscente. Seppi così che nonna era molto ammalata (era diabetica) e che attendeva con ansia una nostra visita.

Mi attivai subito per convincere papà e dopo molte insistenze lui cedette e mi promise che saremmo andati io e lui a trovarla. Purtroppo nel frattempo giunse la notizia della sua morte. Fu grande il dispiacere e il dolore che anche mio padre e mio zio provarono, consapevoli di aver perso un’opportunità di riconciliazione con la donna che con la sua assenza aveva cambiato la vita di tutta la famiglia.

A mio papà rimase la consolazione di dare il nome Mario al figlio nato poco dopo, a ricordo di una madre avuta e persa con il rimpianto di non ricordare una sua carezza.

Fulvia Corso

Colpo di fulmine

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Mi chiamo Paola, sono nata a Guia di Valdobbiadene il 25 gennaio 1940. La mia storia di emigrazione è cominciata quando avevo 12 anni e sono dovuta andare a servizio in una casa a Pieve di Soligo. Mia madre era contenta, una bocca di meno da sfamare, e in più portavo a casa cinquemila lire al mese. Ma eravamo una grande famiglia.

Fra tutti – compresi i nonni – eravamo in nove, con cinque sorelle e un fratello. Mio padre era a lavorare a Lucerna. Veniva a casa solo a Natale. Eravamo un po’ tutti emigranti, chi al servizio come me, gli altri in fabbrica. A 18 anni ho dovuto anch’io fare la valigia. Non era di cartone, ma quasi. Era la prima volta che prendevo il treno. Sono andata in fabbrica nel Canton San Gallo.

Anche lì ero sola in una casa grande. Mi ricordo che pagavo trentacinque franchi al mese, a quei tempi erano tanti, perché la paga la mandavo tutta a casa. Poi un giorno ho deciso di andare a trovare mio fratello Augusto a Ginevra. La città mi è subito piaciuta, così gli ho chiesto di trovarmi un posto lì: mi sarei trasferita con piacere. E così è stato. La sua ragazza mi ha trovato subito un posto da una famiglia ricca. Però dovevo stare lì notte e giorno. I primi tempi sono stati duri, anche perché non parlavo il francese, ma dopo tanti mesi è andata meglio. È stato per caso che ho incontrato l’amore della mia vita.

C’era una signora che veniva in quella casa a svolgere i lavori più pesanti. Mi diceva sempre: «Ma tu, Paola, non esci mai? Perché non vai a ballare?». Io rispondevo: «Dove vuoi che vada? Non conosco nessuno». Pensate che coincidenza, lei veniva da Seren del Grappa. Allora un giorno mi ha detto: «Sai, dove abita mio fratello c’è un bel ragazzo, un ballerino, si chiama Giovanni». Io scherzando le ho risposto: «Perché no? Me lo fai conoscere?». Glielo avevo detto pensando che se ne sarebbe dimenticata, ma il giorno dopo ho sentito suonare il telefono. Pensavo fosse mio fratello, invece era la signora. Mi ha detto: «Paola, è per te». Dall’altra parte ho sentito una voce da uomo che mi diceva: «Sei la Paola?». «Sì». «Io sono Giovanni». «Piacere». «Sei libera domani sera?». «Sì».

Così ci siamo dati appuntamento alla fermata del tram. Era il 22 settembre 1963, alle nove di sera. È stato come un colpo di fulmine. Forse è stato il destino a farci incontrare e da lì è nato il nostro grande amore. Ci siamo sposati il 16 gennaio 1965 nella chiesa di Guia. Poi sono nati i nostri due figli: Albino a novembre del 1965, Milva ad agosto del 1967. Abbiamo fatto più di quarant’anni anni come emigranti, fino al ritorno in Italia il 21 agosto 1998. Eravamo felici, però c’è stata anche tanta malinconia, perché abbiamo lasciato i figli e i nipoti.

Adesso mi sento sola, perché Giovanni è andato avanti, come dicono gli alpini. Ma so che da lassù veglia su di me.

Paola Pederiva

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