Non ho un ricordo visivo della mia nonna paterna Maria, ma ho un forte ricordo di lei racchiuso nel mio cuore. Non l’ho mai vista di persona, ma di lei ho sentito molto parlare, sempre sottovoce, il che me la rendeva un po’ misteriosa. Forse anche per questo sentivo di volerle bene.
In occasione di una recente Festa della Donna ho ascoltato alcune testimonianze sulle donne bellunesi, specie quelle così coraggiose che nel secolo scorso lasciavano i propri cari – marito e figli, anche neonati – per “mettersi a balia” presso famiglie facoltose. Potevano in questo modo contribuire economicamente al mantenimento della famiglia, oppure pagare un debito. Così ho ricordato la sua storia. Mia nonna Maria era una di queste donne coraggiose.
Nonno Francesco faceva il carpentiere e lavorava a Primolano per gli Austriaci. Aveva comprato un piccolo maso per sistemare i due figli più grandi. Forse aveva fatto un debito che non riusciva a pagare. Nonna Maria aveva da poco partorito due gemelli maschi, il parto ero stato un po’ faticoso, ma lei, giovane, si era ripresa bene e i piccoli godevano di buona salute.
Furono sistemati presso una vicina che a sua volta aveva da poco partorito perché la nonna aveva deciso di partire per Milano. Avrebbe fatto la balia presso un famiglia benestante, convinta di ritornare appena si fosse concluso lo svezzamento. Ma passato più di un anno, la signora presso cui lavorava si trovò in attesa di un altro bimbo e mia nonna dovette prolungare la sua permanenza senza poter tornare a casa, neppure per una breve visita.
Qui la storia si tinge di mistero. Si sa che anche mio nonno partì per Milano, ci fu una grande lite e Maria non tornò più in famiglia. I figli, ormai svezzati, venivano accuditi da una zia nubile, tuttavia lei contribuì al loro mantenimento per lungo tempo.
Questa difficile situazione incise molto sulla vita famigliare, tanto che i gemelli non perdonarono mai alla madre l’abbandono e, nonostante lei avesse più volte offerto di raggiungerla a Milano, crebbero con un forte senso di disagio e un vivo rancore nei suoi confronti.
Quando nel 1940 vennero mandati al fronte, prima di partire i gemelli (uno di loro era mio padre) decisero di incontrare nonna Maria, ma non fu un incontro sereno. Entrambi ne rimasero delusi e non riuscirono a riconoscerla come madre.
Dopo sei anni mio padre ritornò dalla guerra. Eravamo tutti contenti, anche il nonno. Però mancava la nonna. Io avevo sette anni e volevo conoscerla. Decisi allora di scriverle la mia prima lettera, con cui la invitavo a conoscere i nipoti ormai numerosi. La risposta arrivò poco tempo dopo. A scriverla non era lei, ma una conoscente. Seppi così che nonna era molto ammalata (era diabetica) e che attendeva con ansia una nostra visita.
Mi attivai subito per convincere papà e dopo molte insistenze lui cedette e mi promise che saremmo andati io e lui a trovarla. Purtroppo nel frattempo giunse la notizia della sua morte. Fu grande il dispiacere e il dolore che anche mio padre e mio zio provarono, consapevoli di aver perso un’opportunità di riconciliazione con la donna che con la sua assenza aveva cambiato la vita di tutta la famiglia.
A mio papà rimase la consolazione di dare il nome Mario al figlio nato poco dopo, a ricordo di una madre avuta e persa con il rimpianto di non ricordare una sua carezza.
Mi chiamo Paola, sono nata a Guia di Valdobbiadene il 25 gennaio 1940. La mia storia di emigrazione è cominciata quando avevo 12 anni e sono dovuta andare a servizio in una casa a Pieve di Soligo. Mia madre era contenta, una bocca di meno da sfamare, e in più portavo a casa cinquemila lire al mese. Ma eravamo una grande famiglia.
Fra tutti – compresi i nonni – eravamo in nove, con cinque sorelle e un fratello. Mio padre era a lavorare a Lucerna. Veniva a casa solo a Natale. Eravamo un po’ tutti emigranti, chi al servizio come me, gli altri in fabbrica. A 18 anni ho dovuto anch’io fare la valigia. Non era di cartone, ma quasi. Era la prima volta che prendevo il treno. Sono andata in fabbrica nel Canton San Gallo.
Anche lì ero sola in una casa grande. Mi ricordo che pagavo trentacinque franchi al mese, a quei tempi erano tanti, perché la paga la mandavo tutta a casa. Poi un giorno ho deciso di andare a trovare mio fratello Augusto a Ginevra. La città mi è subito piaciuta, così gli ho chiesto di trovarmi un posto lì: mi sarei trasferita con piacere. E così è stato. La sua ragazza mi ha trovato subito un posto da una famiglia ricca. Però dovevo stare lì notte e giorno. I primi tempi sono stati duri, anche perché non parlavo il francese, ma dopo tanti mesi è andata meglio. È stato per caso che ho incontrato l’amore della mia vita.
C’era una signora che veniva in quella casa a svolgere i lavori più pesanti. Mi diceva sempre: «Ma tu, Paola, non esci mai? Perché non vai a ballare?». Io rispondevo: «Dove vuoi che vada? Non conosco nessuno». Pensate che coincidenza, lei veniva da Seren del Grappa. Allora un giorno mi ha detto: «Sai, dove abita mio fratello c’è un bel ragazzo, un ballerino, si chiama Giovanni». Io scherzando le ho risposto: «Perché no? Me lo fai conoscere?». Glielo avevo detto pensando che se ne sarebbe dimenticata, ma il giorno dopo ho sentito suonare il telefono. Pensavo fosse mio fratello, invece era la signora. Mi ha detto: «Paola, è per te». Dall’altra parte ho sentito una voce da uomo che mi diceva: «Sei la Paola?». «Sì». «Io sono Giovanni». «Piacere». «Sei libera domani sera?». «Sì».
Così ci siamo dati appuntamento alla fermata del tram. Era il 22 settembre 1963, alle nove di sera. È stato come un colpo di fulmine. Forse è stato il destino a farci incontrare e da lì è nato il nostro grande amore. Ci siamo sposati il 16 gennaio 1965 nella chiesa di Guia. Poi sono nati i nostri due figli: Albino a novembre del 1965, Milva ad agosto del 1967. Abbiamo fatto più di quarant’anni anni come emigranti, fino al ritorno in Italia il 21 agosto 1998. Eravamo felici, però c’è stata anche tanta malinconia, perché abbiamo lasciato i figli e i nipoti.
Adesso mi sento sola, perché Giovanni è andato avanti, come dicono gli alpini. Ma so che da lassù veglia su di me.
In occasione della “Giornata per ricordare” la Famiglia Ex emigranti “Monte Pizzocco”, in collaborazione con l’Associazione Bellunesi nel Mondo, ha realizzato un filmato con le testimonianze di Marco Perot, Eros Paniz, Pia De Paoli e Pio Carrera.
Se è vero che ogni lingua diversa è una diversa visione della vita, lo sguardo di Giulia Dal Fabbro ha l’ampiezza di un grandangolo. Sei gli idiomi che padroneggia, oltre ovviamente all’italiano. Un talento, quello per le lingue, sbocciato sui banchi del liceo “Renier” di Belluno, coltivato studiando in giro per il mondo e messo a frutto in una professione che l’ha portata nel cuore delle istituzioni europee. In Lussemburgo, per la precisione, dove Giulia lavora come agente linguista nell’unità di traduzione italiana della Commissione europea. «Un lavoro piuttosto tecnico e nel quale si fa molto uso della tecnologia», sintetizza lei parlando del suo elaborare testi che vengono discussi nelle sedi in cui hanno origine le decisioni comunitarie. Un compito che richiede competenze – e conoscenze – trasversali. Quelle che Giulia ha acquisito nelle tante esperienze di formazione già accumulate pur avendo solo 27 anni.
Ricapitoliamo il tuo percorso
Mi sono diplomata nel 2013 al Liceo Linguistico di Belluno. Il quarto anno delle superiori l’ho trascorso in Canada, a Saint-Pierre-les-Becquets, un comune nella provincia del Québec. Dopo la Maturità, mi sono iscritta alla Scuola per Interpreti dell’Università di Trieste, dove mi sono laureata alla Triennale conseguendo un doppio titolo con l’Università di Regensburg, in Germania. Il terzo anno sono stata a studiare a Mosca. A Trieste ho fatto anche la Magistrale e nel frattempo ho vinto una borsa di studio della Fondazione Italia-Usa per frequentare un master in “Global Marketing, communication & made in Italy”. Sempre in quel periodo, contestualmente alla Magistrale, ho partecipato a un progetto di scambio internazionale che mi ha permesso di tornare in Russia, all’Università di Astrakhan. Conclusi gli studi ho trovato impiego a Firenze in un’agenzia di traduzioni giurate, lavorando come traduttrice e project manager. Questo lavoro mi ha consentito di ottenere un tirocinio al Parlamento europeo, mentre da maggio di quest’anno, dopo aver vinto un concorso, sono approdata alla Commissione.
Come è stato l’impatto con le istituzioni europee?
Mi è piaciuto fin da subito. Mi ha stupito trovare una realtà informale, amichevole e disponibile. Ovviamente le gerarchie ci sono, ma non pesano, anzi, i rapporti sono aperti. E poi ho apprezzato il contesto internazionale, le relazioni con i colleghi, il fatto di parlare molte lingue diverse e lo scambio continuo tra culture che questo implica. Sicuramente è un bell’ambiente in cui lavorare.
Un lavoro in cui non bastano solo le competenze linguistiche, ma che richiede anche la conoscenza dei temi di dibattito. Come ti prepari?
C’è una rete interna alla Commissione che consente l’accesso diretto a un gran numero di contenuti: video, documenti, articoli e notizie sui diversi argomenti in discussione. Leggere quotidianamente questi materiali aiuta molto. Poi, se ci sono temi specifici, si fa ricerca.
Com’è la vita nella città di Lussemburgo?
Molto particolare. Buona parte della popolazione non è lussemburghese e questo fa sì che non ci sia un’identità locale forte e definita. C’è un clima internazionale che emerge in tutti gli aspetti, dalla gastronomia all’architettura. Una situazione che dà vitalità e vivacità all’ambiente. La città è relativamente piccola e tranquilla. Diciamo che il Lussemburgo non è un Paese di cui mi sono innamorata, ma sicuramente, se dovessi farmi una famiglia, sarebbe un ottimo posto in cui vivere dal punto di vista dei servizi e delle garanzie sociali. Qui la qualità di vita è impareggiabile.
Nessun difetto?
Un punto dolente è rappresentato dalle difficoltà di collegamento, sperimentate soprattutto durante questo periodo di pandemia. A volte ho provato una sensazione di ingabbiamento. Può essere frustrante voler andare altrove ma sapere di non poterlo fare. Tornare a casa, per esempio, non era impossibile, ma particolarmente complicato. Nel breve periodo, volendo rimanere nell’ambito delle istituzioni europee, non mi dispiacerebbe traferirmi a Bruxelles, una città più grande e meglio collegata.
Delle altre esperienze di vita all’estero cosa ricordi in particolare?
L’anno in Canada mi ha fatto crescere. Mi ha permesso di aprire gli occhi sulle differenze culturali e mi ha fatto stringere rapporti che dureranno per sempre. È stato un modo per aprire orizzonti. Anche il secondo periodo in Russia, ad Astrakhan, è stato importante, per ragioni diverse. È stata un’esperienza difficile, in condizioni di vita precarie, che però mi ha fornito la consapevolezza di quanto siamo fortunati ad avere ciò che abbiamo in Europa e in Italia.
Un consiglio a chi sta progettando il proprio futuro?
Non fissarsi per forza su un obiettivo specifico a 18 anni. Si possono fare tante esperienze che a loro volta aprono nuove porte, fino ad arrivare ad esiti che magari prima non si erano nemmeno immaginati e ai quali, puntando dritti su una cosa, non si sarebbe giunti. Provare, fare esperienze. Questo è ciò che mi sento di dire.
Giulia alla fine del suo tirocinio alla sede di Lussemburgo del Parlamento
europeo.
Giulia alla Commissione europea. Alla sue spalle, dizionari, enciclopedie e volumi di italiano.
Sono di Tambre, ma nata a Rho di Milano nel 1940, perché i miei genitori erano anch’essi emigranti. Poi tornarono in Alpago e nel 1953 costruirono casa. Così si trovarono pieni di debiti e io a quindici anni dovetti andare a servizio per aiutare un po’ i miei, che si sacrificarono tanto.
Mio padre faceva il cardatore di lana. Mia mamma era anch’essa a servizio a Milano. Io trovai un posto a Padova. Ricordo la mattina in cui partii, alle undici, per arrivare a Padova alle sei di sera con la nebbia e un buio profondo. Era il mese di novembre. Non sapevo come trovare il posto a cui ero destinata. A forza di chiedere, giunsi in via S. Pietro 44 e poi su all’ottavo piano di un palazzo. Fui ricevuta senza tanta accoglienza. C’erano una vecchia zitella, due professori e due bambini.
Dovevo prendere due secchi di carbone per tre volte al giorno, facendo le scale perché non c’era l’ascensore. Quando arrivavo in cima ero stanca morta, non ne potevo più. Per giunta non mi davano da mangiare abbastanza, così scrissi ai miei e mia mamma venne a prendermi. Lì quindi ci rimasi solo un mese.
Poi trovai un posto a Belluno. Ero contenta, essendo più vicina a casa. Purtroppo mi ero illusa! I padroni erano soltanto due anziani con dodici stanze da pulire di fino, perché la padrona controllava se facevo bene. Però la mia camera da letto era giù nella cantina, vicino alla caldaia. Una stanzetta di due metri per tre con una piccola finestra che sembrava una grata, più o meno una piccola prigione, con un rumore assordante per tutta la notte.
Dopo due mesi lì mi abituai un po’. Un giorno, mentre la signora era fuori, mi misi a cantare. Non mi ero accorta che nel frattempo lei era rientrata… Alla fine, mi diede una lavata di capo, dicendomi che in casa d’altri non si canta. Scoppiai a piangere.
Un giorno venne a trovarmi mio padre. La padrona era fuori. Gli dissi: «Papà, vieni a vedere dove dormo!». Quando vide la stanza si mise a piangere e mi disse: «Dalle gli otto giorni e vieni a casa!» e così feci.
Poi trovai un posto in Svizzera, in filanda. Stavo in convitto dalle suore. Là mi trovavo bene, sia dal punto di vista del lavoro che dell’alloggio. Ero contenta. Eravamo tante ragazze, tutte venete e tutte minorenni. Vista la giovane età, le suore non ci consentivano di uscire la sera. Le altre erano arrabbiate per questo motivo e così decisero di andare dal capo della fabbrica a reclamare.
Chiesero anche a me di protestare, ma io mi rifiutai: per me andava tutto bene, non sentivo nessuna esigenza di uscire la sera. Non l’avessi mai fatto! Praticamente divenni la pecora nera. Mi dicevano parolacce a non finire, non ne potevo più, finché decisi di andare via e per fortuna trovai un altro posto dove finalmente fui proprio felice, tanto è vero che ci rimasi un anno e mezzo, fino a quando tornai a casa per sposarmi.
Questa fu la mia emigrazione. Però tutto mi servì per essere contenta di ogni cosa e per imparare ad apprezzare ciò che ho, poco o tanto.
È l’ultimo figlio di questa famiglia di emigranti, Lorenzo, nato alla fine del 1959 da un contrattempo – come si dice in Francia – che racconta cosa ha sentito e vissuto di questa storia. La storia di una famiglia che ha lasciato l’Alpago per cercare altrove una vita migliore. Tutto ciò che è scritto è vero ma, come in ogni storia di emigrazione, la trasmissione orale dei fatti a volte si prende delle libertà sulla precisione delle date.
Tutto ebbe inizio con la nascita di Sebastiano il 5 maggio 1916 e di Anna il 31 dello stesso mese e dello stesso anno. Nacquero a Codenzano, frazione di Chies d’Alpago, in due case separate solo da un piccolo sentiero. Era ovvio che dovessero incontrarsi. Nel 1918, dopo la Prima guerra mondiale, mio nonno paterno, Angelo Zanon, partì con la moglie Anna, nata a Venezia, le due figlie Maria e Raymonda, nate in Francia in un precedente periodo di emigrazione, e con mio padre, di due anni, per lavorare nelle cave di Civet Pommier d’Euville, nella Lorena. Lì c’erano anche i fratelli di mio nonno e tanti altri emigranti bellunesi. Mia nonna gestiva una mensa e cucinava per i lavoratori. In Francia diede alla luce altri sei bambini.
Nel 1928 mio nonno si ferì sul lavoro con un cavo arrugginito e morì durante la notte. Aveva 42 anni. A quel tempo non c’era l’assistenza sociale e mia nonna dovette tornare in Italia con i suoi figli piccoli, diventati nel frattempo nove. A Codenzano la famiglia le disse che anche loro erano troppo poveri per poterla aiutare. Un po’ di sostegno glielo diedero i fratelli di Venezia. Le due sorelle maggiori, Maria e Raymonda, trovarono lavoro per aiutare la madre. Mio padre, dodicenne, e suo fratello Marcello vennero mandati a studiare in seminario a Feltre. Non so come mia nonna sia riuscita a far studiare mio padre fino ai diciott’anni, so solo che fu una serva di Mussolini (almeno secondo una cugina dell’Alpago) e che anche un conte di Venezia che amava tanto il mio papa provvide alla sua educazione facendogli da padrino. In seminario a Feltre c’era anche lo studente Albino Luciano, futuro Papa Giovanni Paolo I, che mio padre incontrò senza dubbio.
Quando lasciò il seminario, mio padre trovò la sua vicina d’infanzia Anna, i cui magnifici occhi azzurri non lo lasciarono indifferente. Insomma, se ne innamorò. Svolse il servizio militare come Alpino a Belluno e prese parte alla Seconda guerra mondiale. In tutto, sette anni di gioventù al servizio dell’Italia. Fu un eroe di guerra. Durante un combattimento all’assalto di una collina, su 360 uomini ne rimasero in vita solo 16. Fu in questa occasione che ricevette la “Croce di Guerra ” a riconoscimento del suo merito.
Durante l’adolescenza mia madre emigrò a Napoli, dove lavorò come serva in una ricca famiglia di commercianti. Si spostò poi a Roma, prendendosi cura dei figli di un colonnello. Durante la guerra fu precettata due volte per andare a lavorare come stagionale sull’isola di Rügen, nel Mar Baltico. Nel corso del conflitto i miei genitori ebbero una figlia, Luigia, nata nel 1944 a Codenzano. Si sposarono per procura durante la guerra. Mio padre era in prima linea e fu uno zio che accompagnò mia madre al municipio. In seguito celebrarono il matrimonio anche in chiesa.
Per la cronaca, un ragazzo falegname era innamorato di mia madre e non potendo sposarla le fece un regalo: un arcolaio, che in dialetto “alpagot” si chiama “corlet”. Mio padre, come tutte le famiglie Zanon di Codenzano, aveva un soprannome: Zanon “Corletta”. Ecco perché il falegname disse a mia madre: «Hai scelto di sposare un “Corletta”, quindi ti do un “corlet” in modo che tu pensi sempre a me». Questo “corlet” non ha mai lasciato la famiglia, restando con mia madre per tutta la vita. Oggi lo custodisce mia sorella Luigia.
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