Massimo Fornasier. Un matematico tra Austria, USA e Germania

da | 20 Gen 2021 | 0 commenti

Tempo di lettura: 8 minuti

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Massimo Fornasier

Massimo Fornasier è indubbiamente uno che ha i numeri. E non solo perché con i numeri ci lavora. Professore di Analisi Applicata e Numerica presso la Technische Universität München a Monaco di Baviera dal 2010, nel 1999 si è laureato in Matematica all’Università di Padova, dove nel 2003 ha conseguito il Dottorato in Matematica Computazionale. Attualmente si occupa di matematica applicata al trattamento dei dati digitali e all’elaborazione dell’informazione, con studi sulle proprietà matematiche delle reti neurali artificiali per un ambito in costante sviluppo: l’intelligenza artificiale.

Professor Fornasier, da dove nasce la sua passione per la Matematica?
Fin da bambino ho sempre provato un certo piacere nel risolvere problemini matematici e mi capitava di rifletterci tra me e me, senza necessariamente esservi impegnato. Era come un gioco alla fine del quale la ricompensa era aver trovato la soluzione esatta, che è assoluta e non ulteriormente smentibile. In ogni caso, la matematica era una curiosità intellettuale più che una passione. Poi al Liceo, grazie alle lezioni del mio insegnante, il professor Enrico Righetto, ho cominciato a intuire che questa materia poteva essere più sofisticata e interessante, e ho scelto di proseguirne lo studio all’università.

A proposito di università, in quel periodo si è occupato di un progetto particolare, il “Progetto Mantegna”. In cosa è consistito?
Nel marzo del 1944 un bombardamento alleato colpì la chiesa degli Eremitani a Padova distruggendo la Cappella Ovetari, le cui pareti erano state affrescate da Andrea Mantegna. I quasi centomila frammenti degli affreschi furono raccolti e custoditi. Negli anni vi furono tentativi di restauro, sempre falliti per la complessità della soluzione del puzzle.
Il “Progetto” aveva come scopo il riposizionamento, innanzitutto virtuale, dei frammenti degli affreschi, mediante metodi matematici e informatici basati sul trattamento delle immagini digitali. Le idee del progetto sono nate dalla collaborazione di due docenti del Dipartimento di Fisica dell’Università di Padova, i professori Domenico Toniolo e Giuseppe Galeazzi. Mi sono unito a loro nel 1998 semplicemente come collaboratore volontario, dato che avevo concluso gli esami ed ero in attesa di iniziare la tesi. Non avendo trovato immediatamente un tema, ho deciso di non sprecare tempo e di impegnarmi in un lavoro di ricerca.

Qual è stato il suo personale contributo all’iniziativa?
Inizialmente il mio ruolo è stato quello di tradurre il metodo matematico elaborato dai due professori in un software efficiente che potesse essere implementato da un calcolatore. Così ho impostato i primi esperimenti che consentissero di verificare la correttezza e l’efficacia del metodo, metodo che poi ho formalizzato da un punto di vista matematico. Alla fine, questo è stato l’argomento su cui ho svolto la mia tesi di laurea.

Il metodo funzionava?
Con il professor Toniolo abbiamo esteso i nostri risultati sperimentali a un vero e proprio progetto di ricerca applicabile su tutti i frammenti per il completo restauro degli affreschi. Il nostro laboratorio dedicato al “Progetto Mantegna” è stato finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo nel 2001 e gli affreschi sono stati infine restaurati a partire dal 2006, proprio sulla base dei nostri risultati.

Dopo il Dottorato, nel 2003 ha fatto la sua prima esperienza di ricerca all’estero, presso l’Università di Vienna. Come è stato il passaggio dal mondo accademico italiano a un’università straniera?
Pur avendo fatto dei progetti di ricerca in Italia con risultati importanti, nelle prime fasi della mia carriera il riconoscimento accademico mi è arrivato soprattutto all’estero. Una delle ragioni fondamentali è che la matematica in Italia è suddivisa in settori disciplinari distinti, che sono rappresentati da scuole spesso geograficamente individuate. Per questa ragione, chi si occupa di una materia interdisciplinare come la matematica applicata al trattamento dei segnali digitali e dell’informazione fa molta fatica a venir apprezzato in Italia, un aspetto che rende il nostro Paese meno attraente di altri contesti scientifici.

E all’estero?
In Austria, come anche in Germania e negli Stati Uniti, la matematica applicata risulta meno settorializzata. Per questa ragione ha saputo più rapidamente assorbire nuove direzioni di studio, come l’applicazione all’ambito digitale. Nel 2012, però, ho ottenuto il premio annuale della Società italiana di matematica applicata e industriale come riconoscimento dei miei contributi a diversi ambiti della matematica. Questo per dire che anche in Italia la matematica sta piano piano rompendo i muri al suo interno.

Al di là dell’ambito professionale, come è stato l’impatto con l’emigrazione?
La mia decisione era maturata constatando le rigidità del sistema accademico italiano, ma anche il fortissimo e crescente sviluppo del progetto europeo. Negli anni del mio dottorato di ricerca tra Padova e Vienna sono entrati in vigore gli accordi Schengen, è stata messa in circolazione la moneta unica e c’è stato l’allargamento dell’Unione a Est. Tutto mi stava dicendo che l’orizzonte futuro, anche scientifico, non era più l’Italia ma, quanto meno, l’Europa. E io, da giovane ricercatore, ho risposto alla chiamata, decidendo in modo consapevole di tentare una carriera, e una vita, europea.
L’abbraccio con un mondo nuovo…
Diciamo che l’entusiasmo mi ha sostenuto in un percorso che è stato durissimo. Dal mio approccio ideale mi sono dovuto calare nella realtà nazionale prima austriaca e poi tedesca, dove, pur europei, si è stranieri e comunque in minoranza. In ogni caso, non mi sono mai considerato come un Gastarbeiter (lavoratore ospite, Ndr), ma come un pioniere della nuova Europa. Ancora oggi non mi sento di servire la Germania come ospite, ma come italiano che impone la sua visione culturale e scientifica a beneficio europeo e non solo tedesco. Questo non significa che la mia visione sia stata compresa nei contesti in cui ho operato. In Austria ho percepito spesso che non avrei avuto le medesime opportunità di carriera di altri colleghi austriaci e mi sono dovuto imporre molto per potermi affermare. In Germania l’atteggiamento è più neutro e il mio contributo al contesto universitario viene meglio accettato. Ma la cultura e la socialità in Germania, ancor più che in Austria, sono diverse rispetto all’Italia, e la familiarità che si prova nei contesti italiani, anche lavorativi, mi manca molto e spesso.

Tra il 2006 e il 2007 ha lavorato alla Princeton University. Altro trasferimento, questa volta addirittura oltreoceano. Che ricordi ha di questa esperienza negli Stati Uniti?
Princeton è una delle migliori università al mondo in ambito scientifico. È stata un’esperienza molto importante per il mio percorso di carriera, ma anche una conferma fondamentale di come la mia visione scientifica e la mia materia di studio fossero di rilievo per gli sviluppi a venire. Quindi, se in Italia i miei risultati di matematica applicata al trattamento dei segnali digitali e dell’informazione non erano stati pienamente apprezzati, tanto che in quel periodo avevo tentato diversi concorsi senza successo, nel contesto americano ho avuto la prova che il mio percorso scientifico stava puntando in avanti e avevo ragione a proseguire caparbiamente in questa direzione. Ho avuto il privilegio di lavorare con matematiche e matematici di altissimo livello come Ingrid Daubechies e Ronald DeVore e ho potuto condividere con loro uno spirito pionieristico e aperto in ambito matematico. Porto ancora con me quelle conferme e quello spirito che cerco di comunicare ai miei allievi.

C’è qualcosa che le manca dell’Italia o del Bellunese e che porterebbe con sé per “migliorare” il contesto in cui attualmente vive e lavora?
La socialità e la familiarità mi mancano moltissimo. In Baviera i rapporti sul lavoro sono spesso molto professionali, ma anche molto asettici. Io sono convinto che sia particolarmente difficile intraprendere imprese complicate o rischiose senza avere accanto dei collaboratori affiatati anche sul piano umano. Infatti, da un punto di vista di sistema certamente la Baviera funziona molto bene, ma le eccellenze garantite dagli individui sono più difficili da creare.
I bellunesi conoscono l’impegno nel lavoro, ma anche la leggerezza della vita e dello stare insieme agli altri in modo impegnato e spensierato. In Germania, o forse più precisamente in Baviera, la gente sembra sempre troppo seria e poco affabile anche quando si occupa di cose davvero di poco conto e anche quando l’impegno individuale è misurato. Il far fatica stracciandosi il cuore dalla passione e dall’entusiasmo è una cosa sconosciuta in Baviera. Io porto con me l’ispirazione che l’Italia mi ha dato.

E all’inverso, dalle tante esperienze fatte all’estero, cosa porterebbe come “regalo” all’Italia?
Vorrei tanto che anche in zone come Belluno i giovani di talento decidessero di non partire o di tornare. È vero che andare all’estero mi ha dato molte opportunità e consentito di realizzare alcuni dei miei talenti. Ma vuoi mettere farlo tra le nostre montagne? Sarebbe un sogno se si aprissero più opportunità nella nostra valle a richiamo dei giovani. Sarebbe bello, un giorno, poter costruire delle realtà di studio e ricerca all’avanguardia anche nelle nostre zone, in modo da trattenere o attrarre i giovani e offrire loro strumenti e incentivi con cui innovare o creare delle realtà produttive nuove.

Che consiglio darebbe ai giovani bellunesi?
Ascoltare davvero se stessi per capire quali siano i propri talenti e le proprie inclinazioni. Impegnarsi, senza paura di fallire: il lavoro alla lunga paga sempre, sia in termini di soddisfazione che di ritorno concreto. E poi, portarsi sempre le radici nel cuore, testimoniandole senza omologarsi ovunque si vada.

Simone Tormen

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