In Svizzera tra lavoro e associazionismo. La storia di Mosè D’Incà

da | 24 Gen 2020 | 0 commenti

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La mia vita professionale è cominciata come apprendista muratore. Di giorno lavoravo e la sera frequentavo la scuola, all’Iti. Andavo a Santa Giustina in bicicletta, con la strada che non era nemmeno asfaltata. Dopo Santa Giustina mi hanno mandato a Longarone, sempre in bici, fino a quando, con l’aiuto del papà, ho comprato una moto. D’inverno, quando come muratore non lavoravo, andavo sulle piste in Nevegal: avevano appena allestito gli impianti. Concluso l’apprendistato ho fatto il militare. In quel periodo ne ho approfittato per prendere la patente del camion rimorchio, convinto che in futuro mi sarebbe servita a guadagnare di più. La prova del nove è arrivata subito dopo aver finito la naja, quando ho cominciato a fare l’autista. Pensavo di trovarmi bene, e invece… portavo cemento giorno e notte. Nei primi nove mesi ho percorso 8800 chilometri. Allora mi sono detto: vado un anno a Winterthur, magari prendo qualcosa in più e vedo come funziona il mondo fuori da Belluno e dall’Italia. Mi sono fatto mandare il permesso da qualche amico già emigrato e sono partito. La prima notte a Winterthur mi hanno messo a dormire in una soffitta da cui potevo vedere il cielo, dato che le tegole erano un po’ bucate. Casa mia, a Belluno, non era bella, ma almeno il tetto non aveva fori. Comunque, pazienza, mi sono messo addosso il cappotto e tutto quello che potevo. La mattina, al risveglio, avevo la brina sul naso. Non avrei potuto andare avanti così, per questo ho parlato chiaro al mio principale: o mi trovava una stanza buona o me ne sarei andato. Mi ha accontentato subito. A quell’epoca si lavorava e si risparmiava, senza muoversi mai di casa. D’altra parte, ero in un paese straniero e non parlavo una parola di tedesco. Alla fine dell’anno il padrone mi ha detto: «Ti ho aumentato lo stipendio di tre centesimi». Teniamo presente che mi dava il minimo. Poi ha aggiunto: «Ti ho preparato il permesso per l’anno prossimo». Assolutamente no! Ho risposto. Non mi facevo prendere in giro. Era assurdo aumentarmi lo stipendio l’ultimo giorno di lavoro. Così sono tornato in Italia, per poi chiedere a un cugino se riusciva a trovarmi un impiego a Wil, dove lavorava lui. Mi ha spedito il permesso e sono andato. Nella nuova città mi sono sentito subito a mio agio. Prima stavo come in convento, qui, invece, la vita era più interessante. Ero alloggiato da una famiglia del posto e mi trovavo benissimo. Persone squisite e indimenticabili. Sono rimasto lì un anno, poi la ditta ha messo in piedi degli appartamentini per gli operai e mi sono trasferito. Con i soldi messi da parte ho comprato una “Topolino” e l’ho inaugurata per tornare in Svizzera. Durante il viaggio non si sbrinavano più i vetri e ci ho dovuto mettere del sale. In Italia il tempo era abbastanza buono, ma arrivato ad Altdorf ho trovato un metro e mezzo di neve. Per fortuna avevo a portata le catene. Passato il confine ho dovuto cambiare la targa e metterne una svizzera provvisoria. Anche la patente ho dovuto rifare: è costata cinque franchi, non poco. L’ingegnere esaminatore mi ha chiesto dove abitavo. Lui faceva l’autista e conosceva Belluno, soprattutto il Cadore, meglio di me. Quando mi ha consegnato la patente mi ha fatto un sacco di raccomandazioni, come un padre a un figlio. Anche a Wil ho fatto il muratore, poi il capo ha visto che conoscevo il disegno e ha iniziato a darmi fiducia e sempre più responsabilità. Oltre al lavoro, con alcuni amici abbiamo fondato una squadra di calcio: la Folgore Wil. Prima disputavamo partitelle tra italiani, poi ci siamo iscritti a veri e propri tornei. Con noi giocava anche qualche croato e sloveno. Nel ‘64 è emersa la necessità di una casa per la Missione Cattolica. Bisognava raccogliere fondi e allora via, di paese in paese, a fare delle proiezioni per raggranellare denaro. Così abbiamo iniziato a ristrutturare un edificio, un po’ la sera e un po’ il sabato. Lavoravamo come volontari e anche il missionario faceva il manovale. Poi, altra idea tra amici: formare un’associazione Alpini. L’inaugurazione ufficiale si è tenuta nel ’68. Quando abbiamo avuto bisogno di una sede, ho chiesto al sindaco di Wil se ci concedeva un posto per montare un prefabbricato. Tempo quindici giorni e il posto ce l’avevamo. E fino all’anno scorso la sede era ancora lì, poi è stata spostata, ma di Alpini non ce ne sono più. Già dal ‘62, inoltre, eravamo donatori di sangue con un’associazione svizzera, finché nel ‘73 abbiamo dato vita a un gruppo tutto italiano. In Svizzera trattavano i donatori con un occhio di riguardo. Noi lo facevamo gratis, ma ricordo che alla fondazione più di qualcuno che voleva iscriversi ci ha chiesto quanto avrebbe guadagnato. Nel 1969 ho sposato una valtellinese. Le nozze le abbiamo celebrate in Italia, a Sondrio, e abbiamo avuto una figlia in Svizzera e un figlio in Italia. Nel ‘77 ho deciso di rientrare, ma sarei tornato anche subito in Svizzera. Ho avuto più difficoltà ad ambientarmi quando sono rientrato rispetto alla prima volta che sono partito. In Svizzera c’è meritocrazia, se vali ti valorizzano, ma devono prima riconoscere le tue doti. Insomma, è un Paese di cui ho sempre avuto tanta nostalgia, perché ci ho trascorso i migliori anni della mia vita.

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