Lingue e sentimenti

da | 28 Dic 2023 | 0 commenti

Tempo di lettura: 3 minuti

di Raffaele De Rosa

Da alcuni anni ho ripreso a seguire con una certa frequenza una nota trasmissione radiofonica italiana di Rai Radio 2 condotta da due conduttori, ironici e intelligenti, che propongono dei temi su cui gli ascoltatori possono intervenire, raccontando le proprie esperienze personali.

C’è una anche una rubrica nella quale è possibile dare una notizia di cronaca nelle diverse varietà linguistiche d’Italia. E così, in pochi minuti, si può fare un rapido viaggio per la Penisola, dal friulano carnico al cosentino, dal patois valdostano all’anconitano, dal ladino bellunese al greco salentino, dal palermitano al genovese, e così via. Penso che sia un’iniziativa molto simpatica.

Un giorno ha telefonato una signora della provincia di Bolzano che ha parlato in tedesco. Si trattava della traduzione di una notizia su una ricerca assurda fatta in un’università americana, niente di tragico. Alla fine, uno dei moderatori ha commentato, con una risatina:

“Basta così, grazie, altrimenti a qualcuno viene voglia di metterci con le mani in alto e la faccia al muro”.

La battuta, molto discutibile, non mi ha fatto ridere, ma rivela in modo inequivocabile il legame esistente tra lingue e sentimenti. Nel caso del conduttore radiofonico il tedesco richiama eventi tragici di un passato che viene rinfacciato, con una certa frequenza e indistintamente, a tutte le persone che parlano la cosiddetta “lingua di Goethe” con le relative varietà dialettali.

Il tedesco rimane una lingua che fa paura, non solo per la complessità della grammatica e della sintassi. Anche i miei nonni, che la guerra l’hanno vissuta veramente, hanno sempre nutrito una grande diffidenza verso le persone che parlano questa lingua. Ma ricorderò sempre la reazione di uno dei due quando lo portai, a sua insaputa, in Germania dopo aver attraversato, senza controlli, l’Austria e la Svizzera.

Sentendo me parlare tranquillamente con i tedeschi, mio nonno cambiò il suo atteggiamento nei loro confronti. Non li percepì più come una minaccia e, in qualche modo, si riconciliò anche con la sua storia.

Nessuno è esente da pregiudizi derivanti da sentimenti positivi o negativi verso le lingue e le persone che le parlano. Anche gli esperti, per i quali concetti come bello o brutto dovrebbero essere scientificamente irrilevanti, possono commettere certi errori di valutazione. Io, per esempio, da un po’ di tempo ho qualche problema nel confrontarmi con la lingua turca dei miei vicini di casa.

Marito e moglie gridano parole incomprensibili e i figli sono maleducati. Ecco, tutte quelle ü e ö gridate soprattutto il fine settimana mi sembrano dei veri ululati di lupi. Nonostante tutto, però, cerco di tenere a bada la mia intolleranza facendo una distinzione netta tra questa famiglia turca e la loro lingua, che, invece, è piuttosto interessante a livello storico-linguistico.

In Italia la diffidenza verso coloro che parlano varietà dialettali diverse dalla propria è proverbiale. A volte bastano pochi chilometri e una pronuncia leggermente diversa per creare discriminazioni, più o meno scherzose, tra persone di varia origine. Il panorama linguistico veneto, in questo senso, offre un panorama variegato che dovrebbe essere preso in seria considerazione da coloro che parlano di “lingua veneta” come un’entità unitaria.

Per esempio, il dialetto bellunese oltre il ponte di Vidor è stato spesso considerato primitivo, selvaggio e montanaro, mentre il veneziano, con la sua cadenza altalenante come una gondola, parlato dai villeggianti tra le Dolomiti è stato visto come la lingua dei paroni pien de schei e quindi detestato.

Io sono convinto che l’unico modo per tenere a bada certi sentimenti passi attraverso la conoscenza non solo della grammatica e del lessico delle lingue, ma anche della cultura che sta alla base di esse. Se, invece, ci si rifiuta di parlare con le persone a causa dei propri pregiudizi, allora non si va da nessuna parte, indipendentemente dalle lingue usate.

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