Da parecchi anni coltivo la passione di ricostruire la storia della mia famiglia. Un interesse che mi ha condotto a raccogliere date, nomi, notizie e testimonianze anagrafiche che, per quanto riguarda il ramo paterno, riportano al 1600.
La vita da emigrante ha caratterizzato generazioni e generazioni dei miei avi, sia gli Scola che i Centeleghe. Famiglie intere andate a cercar fortuna in Francia, Belgio, Svizzera, America; qualcuno poi tornato, altri rimasti in quei Paesi a proseguire la storia loro e dei loro figli e nipoti, con una parte di cuore sempre al paese di origine.
Penso che la curiosità di scoprire il percorso sia del ramo paterno che di quello materno della mia famiglia sia dovuta principalmente al fatto di non aver potuto, nella mia infanzia e adolescenza, conoscere direttamente questi parenti stretti, o perché già scomparsi, o perché dimoranti in terre lontane.
Anche dalla parte materna dei Centeleghe (Bini) l’emigrazione ha segnato in maniera profonda la famiglia. Quella che racconto in queste righe, però, è in sintesi la storia dei miei avi paterni, di mio bisnonno Valentino, di mio nonno Luigi e di mio papà Rino. Vite di enormi sacrifici, duro lavoro, lontananza da casa, polveri di galleria che diventano parte del corpo.
Valentino Scola, detto “Marenda”, nacque il 3 novembre 1865 alla “Scola” di Molino (Falcade), figlio di secondo letto di Giovanni Battista e Maria Cattarina Piccolin. Il 3 marzo 1892 sposò Angelica Fortunata Busin, con la quale ebbe cinque figli: Giovanni Battista, Rosa Amabile, Luigi (mio nonno), Angelica (morta a due mesi), e Angela Vittoria. Nel 1898 la “Scola” di Molino bruciò. La vigilia di Natale del 1900 morì il padre Giobatta. Fu così che nel 1901 Valentino decise di spostare tutta la famiglia verso terre meno impervie. La sua migrazione non fu di centinaia di chilometri, ma fu comunque importante. Significò, infatti, portare tutta la famiglia più a valle, a San Gregorio nelle Alpi, segnando in maniera indelebile la storia degli Scola.
Valentino, abile muratore, aveva dapprima comprato un piccolo terreno a Roncoi, la frazione più a nord del paese, alle pendici del Pizzocco, ma quasi subito riuscì ad acquistare un “loc” di quarantotto “ster” con annessa casa colonica.
La sua vita di emigrante si svolse per molti anni in Germania, dove imparò per bene la lingua tedesca. Rientrato per la Grande Guerra, l’anno dell’invasione funse da interprete per le truppe di occupazione. La moglie Angelica morì il 6 settembre 1925. Valentino si risposò, ma la nuova compagna si ammalò e rimase inferma per ben tredici anni prima di morire. Valentino la seguì il 21 novembre 1945.
I figli emigrarono tutti in Francia. Le femmine ci rimasero per sempre, formando nuove famiglie: Rosa Amabile a Mancieulles e Angela Vittoria a Saint-Quentin; i figli, invece, che lavoravano alla costruzione di linee elettriche, rientrarono per trascorrere gli ultimi anni a San Gregorio.
Mio nonno Luigi, dopo aver partecipato alla Prima guerra mondiale sposò la gosaldina Luigia Pierina Ciet. Nel 1921 nacque il figlio Gino e il 28 settembre 1925 mio padre Rino.
A marzo del 1926, quando Rino aveva ancora pochi mesi, Luigi partì per la Francia, seguendo le orme del fratello Giovanni Battista. Fece rientro a Roncoi nel 1941, dopo ben quindici anni, per poi ripartire nel 1942 verso la Germania, assunto da una ditta che cercava elettricisti. Era periodo di piena guerra e il suo alloggio fu colpito dai bombardamenti. Fece ritorno in Italia a giugno del 1944. Rino, mio padre, lo conosceva solo dalle fotografie, tanto che al suo rientro continuò a privilegiare il rapporto con nonno Valentino, al quale era molto legato.
Mio papà, che nel 1949 sposò mia mamma, Dina Centeleghe, dopo aver lavorato nei vari cantieri alle condotte di Castellavazzo e sotto l’organizzazione Todt, contrassegnò la sua vita di emigrazione negli anni ’50, in Svizzera. Lavorò come minatore, finché, dopo una delle visite alle quali erano sottoposti tutti gli operai, gli riscontrarono un principio di silicosi. Arrabbiato perché non gli permettevano più di scendere nelle viscere della terra e inconsapevole del male che gli avrebbe procurato quella polvere nei polmoni, fu costretto a fare lavori di superficie, prima nei cantieri stradali di Zurigo, poi, per parecchi anni, nella costruzione della grande diga di Mauvoisin, nel Canton Vallese.
Rientrato in Italia verso la fine degli anni ’50, lavorò come muratore e agricoltore. Una vita, a quei tempi, molto dura, tra sfalci d’erba in alta quota, minuziosa raccolta di foglie per fare il letto agli animali, concimazione dei terreni a suon di forcate di letame da caricare e spargere rigorosamente a mano, mungitura, anch’essa manuale. Una vita di valige e soprattutto fatiche, fino all’ultimo giorno. Fino a quando, a distanza di pochissimo tempo, se ne andarono sia mio papà Rino che mia mamma Dina.
Me la ricordo bene la mia infanzia, comunque serena e con meno pensieri di adesso.
Ah, quasi dimenticavo che anche io, a diciassette anni, facevo quindici ore di lavoro al giorno in Germania. Bazzecole rispetto ai miei avi, ma pur sempre esperienza di emigrazione.
Graziano Scola
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