Pietro Cossalter

Pietro Cossalter ha 71 anni ed è un ex emigrante che ha vissuto per gran parte della sua vita in Svizzera.

Nel 1969, a soli 17 anni, decise di fare le valigie, con l’obiettivo di trovare un buon lavoro. Partito da Sedico, si trasferì a Pfungen, nel Canton Zurigo, dove erano già presenti i suoi fratelli.

Nonostante oggi ami la Svizzera, racconta che all’epoca lasciare l’Italia per trasferirsi al di là delle Alpi fu davvero molto difficile. Era giovane, e per la prima volta si trovava lontano dai suoi cari. Una delle difficoltà incontrate all’inizio fu la lingua, visto che non conosceva il tedesco. Riuscì però a imparare il necessario grazie al suo lavoro e alle nuove amicizie. Grande aiuto lo ricevette anche dai fratelli, soprattutto ai primi tempi. Alla fine, malgrado gli ostacoli iniziali, l’esperienza elvetica fu molto positiva e oggi Pietro si dice contentissimo di quegli anni.

Nel 1971, dopo tre anni dalla partenza, rientrò in Italia per il servizio militare. Assolto il suo dovere, nel 1973 espatriò nuovamente, restando in Svizzera fino al 2016. Lavorò come operaio addetto al carico-scarico merci in due diverse aziende: prima la Keller AG Ziegeleien, una fabbrica di mattoni e tegole. Poi, dal 2001, per la Maag Recycling, azienda di riciclaggio, con la quale raggiunse la pensione nel 2016.

Ogni anno riusciva a tornare in visita in Italia, per trascorrere del tempo con la fidanzata e aiutare i genitori. Nel 1978, mentre si trovava a Sedico, sposò Carla Rosso, sua compaesana. Dopo il matrimonio i due si trasferirono insieme a Pfungen e nel 1980 nacque il loro figlio Claudio. Claudio che nel 2008 e nel 2011 regalò loro i nipoti Ivan e Davide, grandi appassionati di calcio.

Durante la sua vita in Svizzera, per circa trent’anni Pietro svolse anche attività di volontariato presso la Colonia Libera di Embrach, aiutando altri emigranti con i documenti e con l’approccio al tedesco. Ogni tanto, oltre a questioni burocratiche e di inserimento nel nuovo contesto, con la Colonia riuscivano a organizzare anche qualche festa, per distrarsi e socializzare.

L’affetto e il senso di appartenenza che Pietro prova per la sua terra natia lo hanno riportato qui, per godersi gli anni della pensione nel luogo dove ha vissuto la sua infanzia. Dal 2016, infatti, Pietro vive con la moglie a Sedico. Ma quando si presenta l’occasione, torna in Svizzera da figlio, nipoti e amici.

Se lasciare l’Italia per trasferirsi in Svizzera fu complicato, anche lasciare la Svizzera per tornare in Italia non fu da meno. In entrambi i casi, ricorda, la cosa più difficile è stare lontano dai propri cari: genitori e fidanzata prima, figlio e nipoti ora.

Storia raccolta da Alessia Guolla

Il fabbricante di distillati

È nelle Dolomiti che ha origine la nostra tradizione familiare di lavorare con le nostre mani. Gli stagnini erano artigiani che fabbricavano e riparavano pentole e padelle di rame. Percorrevano le Alpi innevate con un emporio di attrezzi legati alla schiena per svolgere il loro lavoro.

Valentino Zannantonio Martin era uno di quegli uomini, e questa è la sua storia. Valentino era solo un ragazzo di tredici anni quando i tedeschi invasero il suo villaggio

durante la Prima guerra mondiale. Miracolosamente, riuscì a sfuggire alla cattura e a morte certa. Dieci anni dopo, nel 1927, colse al volo l’opportunità di trasferirsi nel “Paese fortunato” e fare di questa terra la sua nuova casa. Lasciandosi alle spalle Casamazzagno e la moglie incinta, si recò dall’altra parte del mondo, nel remoto deserto di Simpson, nell’Australia centrale.

Per due lunghi anni Valentino sopportò giornate calde e notti solitarie, moscerini e polvere rossa costruendo la Old Ghan Railway Line da Port Augusta ad Alice Springs. Valentino era un uomo di bassa statura, ma il suo senso dell’avventura e la sua determinazione erano enormi. Sapeva che l’Australia era un posto dove con il duro lavoro un uomo poteva costruire una buona vita per la sua famiglia.

All’inizio degli anni Trenta Valentino aprì un laboratorio a McCormac Place, Melbourne, una zona squallida di indesiderabile notorietà. I tempi erano duri e questo era il meglio che poteva permettersi. Tuttavia, la sua reputazione nel campo dell’artigianato superava l’ambiente misero da cui il suo laboratorio era circondato.

I ristoranti iconici di Melbourne, tra cui Florentino e il Victoria Coffee Palace, riconobbero le sue capacità e furono suoi clienti abituali. Valentino era anche noto per fare lo “strano alambicco o due”, abilità – queste – molto “utili” ai migranti italiani che distillavano grappa di contrabbando. Era l’epoca della Grande Depressione e l’alcol di contrabbando era valuta di baratto.

Valentino era “The Stillmaker” e sono orgoglioso fosse mio nonno. La nostra distilleria è dedicata a Valentino, a riconoscenza della sua maestria, del suo carattere forte e del suo cuore gentile. E proprio come il nonno, anche noi siamo artigiani con la passione per la produzione di whisky eccezionale.

Seguendo le orme di Valentino, mio padre e i suoi fratelli fecero tutti i commercianti, con mani dotate e lo stesso spirito imprenditoriale. Benedetti da una mente brillante per le grandi idee, non avevano paura di correre dei rischi e di “provarci”. Fu dura per mio padre Elio, cresciuto a Melbourne durante la Seconda guerra mondiale come figlio di migranti italiani. Come la maggior parte degli uomini della sua generazione, non aveva molto da dire sulla sua vita personale. Sono state le cose che abbiamo condiviso a parlarmi di più.

Abbiamo condiviso l’amore per la vita all’aria aperta, il campeggio e il sogno di possedere una fattoria. Alcuni dei miei momenti più felici con mio padre sono stati trascorsi condividendo un whisky accanto al fuoco.

Quando io e Sandy ci siamo conosciuti, lei era ancora al liceo e io ero un apprendista elettrico al primo anno. Eravamo solo una coppia di adolescenti, ma in quei primi giorni sapevamo di essere destinati a stare insieme. Siamo in attività da quarant’anni e abbiamo sperimentato gli alti e bassi tipici della conduzione di piccole imprese.

Sono un uomo di grandi dimensioni, proprio come mio padre e mio nonno. Mentre io ho i sogni, è compito di Sandy far sì che diventino e rimangano reali! Lei gestisce i piccoli dettagli.
Siamo sempre stati una buona combinazione, e più che mai lo siamo stati nel creare la nostra distilleria di whisky single malt australiano su misura.

Nel 2021, in occasione del nostro quarantesimo anniversario di matrimonio, abbiamo riempito una delle nostre bellissime botti di Ruby Port/Rum. Sarà un giorno molto speciale quando imbottiglieremo questa produzione.

Ora sono un nonno con una famiglia meravigliosa e sto realizzando il mio sogno di mantenere in vita le tradizioni della mia famiglia.

Michael Zannantonio Martin, Whisky Maker

Colpo di fulmine

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Mi chiamo Paola, sono nata a Guia di Valdobbiadene il 25 gennaio 1940. La mia storia di emigrazione è cominciata quando avevo 12 anni e sono dovuta andare a servizio in una casa a Pieve di Soligo. Mia madre era contenta, una bocca di meno da sfamare, e in più portavo a casa cinquemila lire al mese. Ma eravamo una grande famiglia.

Fra tutti – compresi i nonni – eravamo in nove, con cinque sorelle e un fratello. Mio padre era a lavorare a Lucerna. Veniva a casa solo a Natale. Eravamo un po’ tutti emigranti, chi al servizio come me, gli altri in fabbrica. A 18 anni ho dovuto anch’io fare la valigia. Non era di cartone, ma quasi. Era la prima volta che prendevo il treno. Sono andata in fabbrica nel Canton San Gallo.

Anche lì ero sola in una casa grande. Mi ricordo che pagavo trentacinque franchi al mese, a quei tempi erano tanti, perché la paga la mandavo tutta a casa. Poi un giorno ho deciso di andare a trovare mio fratello Augusto a Ginevra. La città mi è subito piaciuta, così gli ho chiesto di trovarmi un posto lì: mi sarei trasferita con piacere. E così è stato. La sua ragazza mi ha trovato subito un posto da una famiglia ricca. Però dovevo stare lì notte e giorno. I primi tempi sono stati duri, anche perché non parlavo il francese, ma dopo tanti mesi è andata meglio. È stato per caso che ho incontrato l’amore della mia vita.

C’era una signora che veniva in quella casa a svolgere i lavori più pesanti. Mi diceva sempre: «Ma tu, Paola, non esci mai? Perché non vai a ballare?». Io rispondevo: «Dove vuoi che vada? Non conosco nessuno». Pensate che coincidenza, lei veniva da Seren del Grappa. Allora un giorno mi ha detto: «Sai, dove abita mio fratello c’è un bel ragazzo, un ballerino, si chiama Giovanni». Io scherzando le ho risposto: «Perché no? Me lo fai conoscere?». Glielo avevo detto pensando che se ne sarebbe dimenticata, ma il giorno dopo ho sentito suonare il telefono. Pensavo fosse mio fratello, invece era la signora. Mi ha detto: «Paola, è per te». Dall’altra parte ho sentito una voce da uomo che mi diceva: «Sei la Paola?». «Sì». «Io sono Giovanni». «Piacere». «Sei libera domani sera?». «Sì».

Così ci siamo dati appuntamento alla fermata del tram. Era il 22 settembre 1963, alle nove di sera. È stato come un colpo di fulmine. Forse è stato il destino a farci incontrare e da lì è nato il nostro grande amore. Ci siamo sposati il 16 gennaio 1965 nella chiesa di Guia. Poi sono nati i nostri due figli: Albino a novembre del 1965, Milva ad agosto del 1967. Abbiamo fatto più di quarant’anni anni come emigranti, fino al ritorno in Italia il 21 agosto 1998. Eravamo felici, però c’è stata anche tanta malinconia, perché abbiamo lasciato i figli e i nipoti.

Adesso mi sento sola, perché Giovanni è andato avanti, come dicono gli alpini. Ma so che da lassù veglia su di me.

Paola Pederiva

Come si impara ad apprezzare le cose

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Sono di Tambre, ma nata a Rho di Milano nel 1940, perché i miei genitori erano anch’essi emigranti. Poi tornarono in Alpago e nel 1953 costruirono casa. Così si trovarono pieni di debiti e io a quindici anni dovetti andare a servizio per aiutare un po’ i miei, che si sacrificarono tanto.

Mio padre faceva il cardatore di lana. Mia mamma era anch’essa a servizio a Milano. Io trovai un posto a Padova. Ricordo la mattina in cui partii, alle undici, per arrivare a Padova alle sei di sera con la nebbia e un buio profondo. Era il mese di novembre. Non sapevo come trovare il posto a cui ero destinata. A forza di chiedere, giunsi in via S. Pietro 44 e poi su all’ottavo piano di un palazzo. Fui ricevuta senza tanta accoglienza. C’erano una vecchia zitella, due professori e due bambini.

Dovevo prendere due secchi di carbone per tre volte al giorno, facendo le scale perché non c’era l’ascensore. Quando arrivavo in cima ero stanca morta, non ne potevo più. Per giunta non mi davano da mangiare abbastanza, così scrissi ai miei e mia mamma venne a prendermi. Lì quindi ci rimasi solo un mese.

Poi trovai un posto a Belluno. Ero contenta, essendo più vicina a casa. Purtroppo mi ero illusa! I padroni erano soltanto due anziani con dodici stanze da pulire di fino, perché la padrona controllava se facevo bene. Però la mia camera da letto era giù nella cantina, vicino alla caldaia. Una stanzetta di due metri per tre con una piccola finestra che sembrava una grata, più o meno una piccola prigione, con un rumore assordante per tutta la notte.

Dopo due mesi lì mi abituai un po’. Un giorno, mentre la signora era fuori, mi misi a cantare. Non mi ero accorta che nel frattempo lei era rientrata… Alla fine, mi diede una lavata di capo, dicendomi che in casa d’altri non si canta. Scoppiai a piangere.

Un giorno venne a trovarmi mio padre. La padrona era fuori. Gli dissi: «Papà, vieni a vedere dove dormo!». Quando vide la stanza si mise a piangere e mi disse: «Dalle gli otto giorni e vieni a casa!» e così feci.

Poi trovai un posto in Svizzera, in filanda. Stavo in convitto dalle suore. Là mi trovavo bene, sia dal punto di vista del lavoro che dell’alloggio. Ero contenta. Eravamo tante ragazze, tutte venete e tutte minorenni. Vista la giovane età, le suore non ci consentivano di uscire la sera. Le altre erano arrabbiate per questo motivo e così decisero di andare dal capo della fabbrica a reclamare.

Chiesero anche a me di protestare, ma io mi rifiutai: per me andava tutto bene, non sentivo nessuna esigenza di uscire la sera. Non l’avessi mai fatto! Praticamente divenni la pecora nera. Mi dicevano parolacce a non finire, non ne potevo più, finché decisi di andare via e per fortuna trovai un altro posto dove finalmente fui proprio felice, tanto è vero che ci rimasi un anno e mezzo, fino a quando tornai a casa per sposarmi.

Questa fu la mia emigrazione. Però tutto mi servì per essere contenta di ogni cosa e per imparare ad apprezzare ciò che ho, poco o tanto.

Le mille avventure di Antonio Nadalet

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I racconti sulle vicissitudini dei nostri migranti hanno il potere di indurmi sentimenti contrastanti e sempre profondi. Da un lato la pena per queste persone, costrette ad abbandonare la casa e gli affetti, dall’altro l’ammirazione per il loro coraggio e la loro laboriosità, dimostrata e riconosciuta ovunque. Ascoltando queste storie di sacrificio e dignità provo una sorta di orgoglio per la mia “bellunesità”. 

La vita di mio nonno materno, Antonio Nadalet, classe 1888, di Pises di Ponte nelle Alpi, è una storia che merita di essere ricordata. Quarto di cinque fratelli e orfano di madre, dovette imparare presto a sbrigarsela da solo. Già all’età di sette anni iniziò la sua carriera di emigrante. Da solo, al seguito delle numerose maestranze bellunesi, raggiunse a piedi la Valsugana, all’epoca territorio austriaco, per essere impiegato nei lavori di costruzione della ferrovia. Il suo compito era portare acqua agli operai. Si dormiva in fienili e in baracche di cantiere. Il compenso un piatto di minestra e un pezzo di pane. Viste con gli occhi di oggi, sono situazioni che fanno rabbrividire, ma nella condizione di miseria nera in cui gravava il Bellunese all’indomani dell’Unità d’Italia, anche una bocca in meno da sfamare era un aiuto per la famiglia. 

Agli inizi del Novecento, poco più che ragazzo, si imbarcò come mozzo sui piroscafi che attraversavano l’Atlantico tra Genova e New York. Col tempo ascese anche al ruolo di aiuto cuoco, ma il lavoro era pur sempre difficile. Da un punto di vista fisico perché si passavano dieci mesi all’anno disturbati continuamente dal rollio e dal movimento dell’oceano, da un punto di vista psicologico perché si doveva convivere con il dramma dei migranti che, nelle stive della terza classe, affrontavano il viaggio della speranza verso l’America in condizioni disumane. In ogni tragitto si sviluppavano epidemie e mediamente si celebravano quattro o cinque funerali di mare. Il viaggio poteva durare anche quaranta giorni e, in determinate stagioni, al largo delle coste americane, c’era l’insidia degli iceberg.

Il ritorno era più sereno, frequentato soprattutto dai passeggeri delle prime classi. Molti migranti, pur partiti con l’idea di ritornare in patria, finivano col mettere radici in America per l’angoscia di dover riaffrontare un mese e più di mal di mare. Mio nonno era forte e non pativa il mal di mare, ma la vita da marittimo non poteva durare a lungo e dopo tre anni decise di fermarsi in America. New York, anzi Nuova York come era solito chiamarla, divenne la sua città. Qui mise a frutto l’esperienza di aiuto cuoco e trovò impiego in diversi ristoranti. La sua natura, però, lo spinse ad affrontare anche periodi di lavoro nelle miniere della Pennsylvania o a fare il boscaiolo nel Vermont e nel Quebec. Gli affari andavano discretamente e con il suo lavoro poteva garantire sicurezza anche alla famiglia a Ponte Nelle Alpi.

Ritratto di Antonio. La fotografia è stata scattata in uno studio fotografico di New York poco prima del suo rientro in Italia, probabilmente nel 1918.

In Europa, nel frattempo, soffiavano venti di guerra e tutti lo dissuadevano dal rientrare alla vigilia del primo conflitto mondiale. Il ritorno a casa si verificò finalmente al termine del 1918. Qui decise di mettere su famiglia e sposarsi con mia nonna, Maria De Battista, di La Secca. Si sistemarono provvisoriamente a Col di Cugnan, in attesa di coronare il loro sogno: una casa colonica, con tanta campagna e boschi da coltivare, così da garantire un futuro ai figli. Acquistarono numerosi terreni alla Vena d’Oro e vi costruirono la casa dove trascorrere la loro vita. Nacquero anche i primi figli, Ester e Angelo, ma le cose non andarono come sperato. L’Italia ritrovata all’indomani della guerra era in condizioni peggiori di come era stata lasciata e con il ricavato della terra si poteva al massimo sopravvivere. Qui riaffiorò lo spirito avventuroso del nonno. Sentì e lesse di gente che ha aveva fatto fortuna cercando oro nelle Americhe e, con una decina di compaesani di Cugnan e Losego, decise di partire alla volta del Perù. Doveva essere un’esperienza breve, qualche mese, al massimo un anno, perché ormai aveva moglie e due figli. Gli eventi andarono diversamente. La loro meta fu la foresta amazzonica dove, a detta di molti, l’oro, i diamanti e gli smeraldi tappezzavano i corsi d’acqua. La realtà era ben diversa. 

Di oro poche tracce, in compenso il clima era insopportabile e i pericoli ovunque. Tutti gli eroici cercatori contrassero la febbre malarica. Alcuni non sopravvissero, altri abbandonarono in tempo e ritornano a casa. Mio nonno, benché fiaccato dai continui attacchi febbrili, non si arrese, abbandonò l’Amazzonia e si spostò sul più salubre altopiano andino. Continuò a cercare l’oro, ma questa volta nelle viscere delle montagne, a oltre 4000 metri di quota. Acquisì da una società nordamericana la concessione per l’esplorazione e lo sfruttamento di un filone aurifero. Con la dinamite e il piccone, aiutato da alcuni indio dei villaggi sottostanti, estrasse la roccia ricca di oro. Periodicamente organizzava una colonna di muli caricati con il materiale e raggiungeva una località prestabilita nel fondovalle, a due giorni di cammino, dove l’oro veniva conferito e pagato. Era un viaggio pericoloso, sull’orlo di canyon senza fondo, da fare imbracciando 24 ore su 24 il fucile, per i continui attacchi di predoni di ogni sorta. Tuttavia era un rischio da affrontare perché l’attività era remunerativa. 

Il continuo contatto epistolare con casa e i frequenti trasferimenti di denaro convinsero anche la nonna ad accettare un periodo di assenza più lungo del preventivato. In fin dei conti, c’era la possibilità di sistemarsi sul serio. A un certo punto, però, la corrispondenza si arrestò. Per mesi la nonna non ricevette notizie. Dovette essere un’esperienza dolorosissima, perché nei suoi racconti mi ricordava sempre la pena con cui erano guardati, alla messa della domenica, i miei due zii, ancora bambini, considerati orfani ormai da tutti. La malaria stava minando il fisico del nonno e gli attacchi febbrili erano sempre più frequenti e insopportabili. Per questo decise di abbandonare tutto, raggiungere un ospedale per curarsi, riacquistare forze e poi rientrare in Italia. Con un viaggio di una settimana, legato al mulo per non precipitare dai dirupi quando la febbre saliva a quaranta, raggiunse una missione nei pressi di Lima. Lì venne curato immediatamente con il chinino, ma successe un imprevisto. Il clima della fascia costiera peruviana è estremamente secco e in quella zona non pioveva praticamente da anni. Tuttavia, dopo pochi giorni dal suo ricovero, si verificò un tremendo uragano, mai ricordato a memoria d’uomo. La missione costruita in fango e terra si sciolse letteralmente per le piogge. L’intera capitale lamentò vittime e danni incalcolabili. 

Il nonno si ritrovò per strada in condizioni di salute drammatiche. Riuscì fortunatamente a fare scorta di chinino per contenere il male, ma non trovò una sola nave su cui imbarcarsi alla volta di una qualsiasi destinazione europea. Capì che in una città in preda alle epidemie e al colera, priva della possibilità di comunicare con l’esterno, non poteva restare e decise di raggiungere un porto sulla costa atlantica del continente, in Colombia o in Venezuela. Fu la prova più difficile della sua pur avventurosa vita. Attraverso Ecuador e Colombia, raggiunse Maracaibo, in Venezuela. Un viaggio di oltre due mesi, compiuto su battelli fluviali, treni di fortuna e a piedi. Qui si imbarcò sul primo piroscafo per l’Italia. A salvarlo furono le scorte di chinino e la forte fibra. Dopo cinque mesi senza notizie, e con l’angoscia di ricevere in ogni momento il fatidico telegramma che stronca ogni speranza, un bel giorno un trionfante postino, salito di corsa alla Vena d’Oro da Castion, annunciò alla nonna lo sbarco a Genova del nonno. Fu la fine di un incubo: lei potè riabbracciare il marito e i figli poterono conoscere il padre partito quando erano ancora in tenerissima età. Alla partenza pesava oltre ottanta chili, ora non raggiungeva i cinquanta. 

Trascorse i successivi due anni alternando lunghi soggiorni all’ospedale di Belluno e periodi di riposo a casa. Non era in grado di lavorare e l’onere del sostentamento della famiglia gravava tutto sulla nonna. Mancava inoltre qualsiasi forma di assistenza sanitaria e le lunghe degenze in ospedale avevano costi esorbitanti. Per affrontare la situazione fu costretto a vendere boschi, terreni agricoli e pure la sorgente delle acque minerali. Cosa più importante, comunque, gli attacchi febbrili si andavano sempre più rarefacendo e pian piano le forze ritornavano. Il solo lavoro della terra non poteva però garantire un futuro certo alla famiglia e qui iniziò la seconda vita da emigrante del nonno, questa volta in Europa. Fu un’emigrazione stagionale: boscaiolo in Austria e Baviera, tuttofare in Svizzera, minatore in Belgio, operaio in Olanda e Francia. Non c’è praticamente lavoro in cui non si sia cimentato e nazione che non abbia visitato. Nel frattempo nacquero altri due figli: nel 1927 mio zio Ferruccio, nel 1928 mia mamma. Avrebbe voluto darle il melodico nome di Aurelie, conosciuto nei Paesi francofoni, ma il solerte impiegato dell’ufficio anagrafe, ligio alle leggi fasciste, lo trascrisse in un improbabile, ma italico, Orelida. 

Il nonno comprese che la famiglia e mia nonna, per quanto donna forte ed energica, non potevano privarsi per periodi troppo prolungati della sua presenza. Vinse la ritrosia di lei ad abbandonare la Vena d’Oro e la convinse ad affrontare, tutti insieme, l’esperienza di emigrazione. Il Paese prescelto fu proprio la Francia, ritenuta più idonea ad accogliere una famiglia di italiani. Da solo si recò oltralpe, verificò varie situazioni e opportunità lavorative e alla fine individuò come meta la cittadina di Laifour, a Nord di Charleville Mezieres, nel dipartimento delle Ardenne, al confine con il Belgio. La nonna con tutti i figli lo raggiunse a distanza di qualche mese. Si sistemarono in una piccola ma dignitosa casetta messa a disposizione dalla grande industria siderurgica presso cui il nonno lavorava come operaio. Condussero una vita modesta ma serena e senza privazioni. Il nonno si fece apprezzare anche per la padronanza con le lingue: parlava correntemente l’inglese, il tedesco, lo spagnolo, oltre al francese e all’italiano. Questo lo portò ad avere spesso un ruolo importante nel gestire l’organizzazione delle attività lavorative, dove potè rapportarsi con le maestranze multietniche e con la numerosa comunità spagnola direttamente nelle rispettive lingue. A casa, la sera, l’unica parlata consentita era invece il dialetto bellunese. 

Laifour, primi anni Trenta. La famiglia di Antonio e Maria con i fligli Ester, Angelo, Ferruccio e Orelida. All’epoca non era ancora nato l’ultimogenito, Ottorino.

La famiglia si integrò molto bene nella nuova vita e i figli frequentarono con profitto la scuola francese. Furono anni ricordati con molto piacere e allietati dalla nascita, nel 1934, dell’ultimo figlio: mio zio Ottorino. A interrompere la loro serenità sopraggiunse il secondo conflitto mondiale. Laifour era posta all’estremità settentrionale della linea Maginot, la grande struttura realizzata dai francesi per difendere i confini dagli storici nemici tedeschi. Nel 1939, temendo l’attacco tedesco, la Francia si armò. Non si ipotizzava, però, che l’invasione potesse avvenire da Nord, attraverso l’Olanda e il Belgio. Mia mamma ricorda ancora in modo nitido il giorno in cui le lezioni, a scuola, vennero improvvisamente interrotte e i ragazzi mandati di corsa a casa. Nel frattempo gli altoparlanti, nelle vie, annunciavano che di lì a breve sarebbero potuti arrivare gli invasori. Vennero concesse alla popolazione due ore per riunire le famiglie, raccogliere lo stretto indispensabile e raggiungere un piazzale. Lì sarebbero stati smistati e destinati, come profughi di guerra, a varie regioni della Francia lontane dal confine. La meta fissata per la famiglia Nadalet fu la cittadina di Penvenan, in Bretagna, non distante da Brest. 

Il tragitto venne compiuto con camion militari e treni allestiti allo scopo. Si può immaginare la confusione e lo stato d’animo della gente. Ad aggravare la situazione c’era l’assenza del nonno, trattenuto dall’azienda per imballare e trasferire, in fretta e furia, tutti i macchinari in un altro stabilimento nei pressi di Tolosa, all’altro capo della Francia. L’impossibilità di comunicare fu un dramma nel dramma. Si partì, ma si comprese subìto che le colonne militari e i convogli di treni erano facile preda degli attacchi dei caccia tedeschi. Assistettero all’esplosione dei camion che li precedevano e le linee ferroviarie vennero sistematicamente interrotte. Il consiglio fu di procedere a piedi, lontano dalle strade, dormire nelle chiese o nei fienili isolati, evitando di formare grossi assembramenti. Riposarono nella grande Cattedrale di Reims e nelle principali chiese e monumenti del Nord della Francia. 

Questa esperienza, probabilmente drammatica, vista con gli occhi di un bambino assume un altro aspetto. Nei ricordi di mia mamma non traspare angoscia o dolore. Il suo racconto è una sorta di avventura compiuta con i fratelli e con tanti altri ragazzi. Dopo venti giorni raggiunsero la Bretagna. L’avanzata tedesca fu fulminea e tutto il Nord della Francia venne occupato rapidamente. Di lì a pochi giorni furono in Bretagna. Il nonno si riunì alla famiglia solo a distanza di un altro mese, dopo aver vagato, in pena, alla cieca, per tutto il Paese. Ora erano finalmente tutti insieme. Inizialmente vennero ospitati, con tanti altri profughi, in un collegio, colonia marina. Poi ebbero a disposizione una porzione di casa in cui mangiare e trascorrere la giornata, per rientrare a sera al ricovero comune. A parte questo, la vita in Bretagna non si rivelò così male e il clima fu mite. La parola fame nemmeno concepita, perché la terra era generosa e il mare, con le sue incredibili basse maree, rappresentava un self-service in cui approvvigionarsi di ogni prelibatezza. Si pranzava con ostriche, granchi poro e astici. Mancava solo la polenta! 

Il nonno, da cittadino italiano, era un alleato dei tedeschi e per di più parlava la loro lingua. Tutto questo gli garantì una condizione di privilegio sul lavoro. La famiglia, pur consapevole che la situazione era provvisoria, trascorse due anni sereni. Ogni cosa però ha una fine e nel 1941, al compimento del ventesimo anno, mio zio Angelo fu soggetto agli obblighi militari. Gli accordi tra i Paesi dell’Asse prevedevano che l’arruolamento di cittadini all’estero avvenisse nel Paese di origine. I tedeschi lo invitarono pertanto a raggiungere Belluno. A questo punto, però, la famiglia decise di seguirlo e far ritorno in patria. Dovettero prima passare per Laifour, per perfezionare le pratiche per il rientro. Qui scoprirono che la loro casa, lasciata in fretta due anni prima, era stata completamente saccheggiata e svuotata. Compresero anche che le condizioni della Francia, e dell’intera Europa, non erano quelle dell’isola felice Bretagna. La fame era una presenza costante, ma a dare speranza c’era la prospettiva di avere alla Vena d’Oro una casa accogliente e dei terreni da coltivare per sfamarsi. 

Lo zio, nel frattempo, arrivato a Belluno venne prontamente arruolato nella Brigata Cadore e inviato in Bosnia e Montenegro. Lo rividero solo nel 1946. Il successivo rientro della famiglia fu complesso. Una volta a Belluno non poterono ritornare nella loro abitazione, data in affitto insieme ai terreni. Soltanto alla fine dell’anno potevano riaverne la disponibilità. In più, non potevano nemmeno contare sul raccolto di quella stagione. Si sistemarono provvisoriamente all’albergo al Ponte della Vittoria, in attesa del trasferimento dei loro risparmi, trattenuti alla frontiera e inviati a Roma. Li riebbero solo a distanza di parecchi mesi, abbondantemente decurtati per non meglio precisati oneri e prelievi del regime. Il nonno, per quanto avanti con gli anni, non si perse d’animo e, memore del suo passato di boscaiolo teleferista, raggiunse in piena guerra la Carinzia per la sua ultima esperienza di emigrazione. Pian piano le cose si sistemarono, ritornarono in possesso della loro casa alla Vena d’Oro e cominciarono a coltivare la campagna. Con l’armistizio dell’8 settembre del 1943, lo zio Angelo, alla pari di molti commilitoni, si aggregò con la Brigata Garibaldi al fianco dei partigiani di Tito. Al rientro in patria, a guerra finita, venne mandato, senza neanche passare per casa, in Sicilia, a sedare i moti indipendentisti sull’isola. Al ritorno a Belluno cercò un lavoro in patria. 

Le condizioni dell’Italia erano drammatiche e trovare un impiego era un miracolo. Partì allora per le miniere di carbone del Belgio, non lontano da Laifour. Qui sposò una ragazza figlia di emigranti veronesi. Poi si trasferì in Francia, per andare a vivere definitivamente nel posto in cui aveva trascorso la sua infanzia e la gioventù. Nel corso degli anni fu sempre un punto di riferimento, anche sindacale, per i numerosi emigranti italiani in Francia e in Belgio, dove partecipò ai soccorsi delle vittime della tragedia di Marcinelle. Anche lo zio Ferruccio, spirito libero e animo coraggioso, non riuscì ad ambientarsi in Italia. Già alla fine del 1945, da clandestino, attraversò le Alpi in modo avventuroso. Venne rinchiuso in un campo di concentramento dove sperimentò l’odio verso gli italiani. Il ricordo di una Francia che l’aveva accolto generosamente vent’anni prima svanì. Seppe comunque riscattarsi e raggiungere risultati professionali di tutto rispetto. Si stabilì a Salindres, in Occitania, vicino alla città di Nimes. Mio zio Ottorino, dopo aver lavorato in tutto il Nord Italia, si stabilì in provincia di Bergamo, sul Lago d’Iseo. Mia mamma e la sorella Ester non abbandonarono più Belluno. 

Il nonno Antonio si spense serenamente nella sua casa alla Vena d’Oro nel 1958, tre mesi dopo la mia nascita. Fino alla fine manifestò i segni della malaria contratta quarant’anni prima in Perù. Avrei tanto desiderato conoscerlo personalmente. Avrei voluto sentire i racconti che faceva la sera a mia mamma, seduta sulle sue ginocchia. Racconti di mare con onde alte come montagne, di grattacieli immensi, di scimmie impertinenti, di pappagalli multicolori e di serpenti lunghi dieci metri. Nelle sue storie mai un accenno alle esperienze difficili e ai sacrifici. Una vita affrontata con entusiasmo, con la mente aperta al mondo, con il cuore rivolto a Belluno. Mia nonna Maria, presenza fondamentale e fonte di equilibrio e serenità per tutti, lo seguì undici anni dopo. Entrambi riposano insieme nel cimitero di Levego. 

Lorenzo Pertoldi

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