Bollettino socio-economico del Veneto. Edizione straordinaria sull’impatto della pandemia COVID-19

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Nell’attuale scenario internazionale di incertezza, dominato dall’emergenza sanitaria, viene prevista una brusca contrazione del PIL veneto, -7,1%, nell’anno 2020.
Le attività produttive con permesso di apertura in Veneto nel momento di maggiore sospensione delle attività (DPCM 22/03/2020) sarebbero il 41% del totale; a livello economico contribuirebbero al 44,5% del fatturato del settore imprenditoriale privato e circa al 49% del valore aggiunto.
Essendo il Veneto una delle regioni italiane ad alta propensione all’export, si potrebbe ipotizzare che il lockdown del solo mese di marzo possa incidere per una buona parte del fatturato estero mensile realizzato dalle imprese venete, pari a circa 5,3 miliardi di euro.

Il Veneto è la prima regione italiana per presenze turistiche e gli effetti della pandemia si sono registrati fin dal mese di febbraio: -7,6% degli arrivi rispetto allo stesso mese del 2019 (dati parziali e provvisori).
Da fonte Veneto Lavoro risulta che nel periodo tra il 23 febbraio 2020, giorno in cui sono entrate in vigore le prime misure di contrasto alla diffusione del coronavirus, e il 6 maggio 2020, l’impatto dell’emergenza sanitaria da Covid-19 ha determinato in Veneto una perdita di posizioni di lavoro dipendente, rispetto a quanto osservato nel corrispondente periodo del 2019, attorno alle 55.000 unità (quasi 6.000 posizioni a settimana), un valore prossimo al 3% dell’occupazione dipendente in regione. Nei primi giorni di maggio, quando sono iniziate ad attenuarsi le misure di lockdown, si rilevano segnali di arginamento della caduta occupazionale. Il comparto delle attività turistiche risulta il più esposto agli effetti della pandemia e, da solo, spiega il 45% della contrazione occupazionale.

La chiusura di molte attività produttive si riflette, già dal giorno seguente, sul calo dei consumi elettrici: mercoledì 1 aprile il consumo finale di energia elettrica si ferma a 1.598 GW, contro i 2.274 del primo mercoledì di aprile dell’anno precedente, ovvero il 29,8% in meno.

I dati sul traffico stradale evidenziano cali rilevanti della mobilità dei veicoli leggeri.
L’approvvigionamento di prodotti conservabili dal 17 febbraio 2020 al 15 marzo ha fatto registrare in Veneto un aumento di spesa pari al +20%.

L’edizione straordinaria del Bollettino socio-economico del Veneto è stata realizzato ai fini di fornire elementi di conoscenza utili per la programmazione di strategie e interventi alla luce dello shock causato dal virus Covid 19 sul sistema economico e sociale del Veneto.

Fotografa il contesto del territorio veneto e mostra i primi dati sull’impatto economico e sociale della pandemia. Vengono riportate le previsioni del PIL 2020 per il Veneto e l’Italia, la situazione del panorama imprenditoriale, i dati relativi all’export, al turismo, al mercato del lavoro, le variazioni nei consumi di energia, nella mobilità stradale e nei consumi alimentari.
A tal fine sono stati utilizzati i dati di statistica ufficiale o altre fonti attendibili disponibili al 15 maggio 2020.

I dati relativi alla previsione del PIL e dei conti economici relativi all’anno 2020 sono di fonte Prometeia. La scelta di utilizzare le stime e previsioni dell’Istituto Prometeia per il Veneto deriva, oltre che dalla riconosciuta competenza in materia, anche dalla possibilità di avere informazioni coerenti e confrontabili per tutto il territorio nazionale. Si sottolinea che le previsioni si basano sulle informazioni disponibili al 16 aprile sugli interventi governativi, passibili di modifiche, quindi sono da utilizzare prevalentemente per individuare la tendenza del fenomeno.

Le ipotesi sugli effetti del Covid 19 relative agli altri ambiti, nella I parte del documento, si basano o su rilevazioni relative ai primi mesi del 2020 o su dati e tendenze evidenziate negli anni precedenti.

Le elaborazioni sulle attività produttive potenzialmente aperte si basano sull’elenco delle attività economiche indicate dal DPCM 22/03/2020 e successiva integrazione DM MISE 25/03/2020, senza considerare che le attività produttive sospese possono comunque proseguire se organizzate in modalità a distanza o lavoro agile; inoltre non sono state considerate le attività autorizzate dalla Prefettura all’apertura in deroga ai decreti suddetti. Sono stati utilizzati i dati di fonte Istat sulle unità locali, ossia i luoghi operativi o amministrativi subordinati alla sede legale (ad esempio: un laboratorio, officina, stabilimento, filiale, agenzia, ecc.) in quanto ritenuti più rappresentativi della realtà territoriale rispetto le sedi d’impresa. Alcune
informazioni sono datate, ma essendo la struttura imprenditoriale veneta complessivamente stabile, i risultati strutturali sono da considerarsi attuali.

Dossier Statistico Immigrazione 2018: il 25 ottobre la presentazione a Roma

Verrà presentata giovedì 25 ottobre a Roma l’edizione 2018 del Dossier Statistico Immigrazione, a cura del Centro Studi e Ricerche Idos, in collaborazione con il Centro Studi Confronti. L’appuntamento è alle 10.30 presso il Teatro Orione (Via Tortona 7). In contemporanea, si terranno delle presentazioni in tutte le Regione e Province autonome.
Per l’occasione, il Dossier verrà distribuito ai partecipanti fino a esaurimento copie.

Per ulteriori informazioni:
Centro Studi e Ricerche IDOS: tel. 06 66514345/502, idos@dossierimmigrazione.it; www.dossierimmigrazione.it; facebook/dossierimmigrazione
Centro Studi CONFRONTI: tel. 06 4820503, info@confronti.net; www.confronti.net; facebook/ConfrontiCNT

Presentazione del “Rapporto Italiani nel Mondo 2016”

ROMA – Si terrà alle ore 10 di giovedì 6 ottobre a Roma la presentazione del Rapporto Italiani nel Mondo 2016 della Fondazione Migrantes. L’XI edizione dell’indagine, che da anni  analizza non solo gli spetti statistici ma anche le tendenze migratorie e le connotazioni umane della nostra emigrazione all’estero,  verrà presentata presso l’Auditorium “V. Bachelet”, The Church Palace – Domus Mariae – via Aurelia 481 (Metro A fermata Cornelia).

Inform

Presentata a Roma la XXV edizione del Rapporto Immigrazione di Caritas e Migrantes

XXV Rapporto Immigrazione 2015ROMA – Compie 25 anni il Rapporto Immigrazione di Caritas e Migrantes, approfondimento e riflessione sul fenomeno migratorio in Italia, che ne ha seguito gli sviluppi da quando il nostro Paese si scopriva meta di un numero in crescita di immigrati e fino ad oggi, in cui la loro presenza ha superato i 5 milioni (nel 2015 sono 5.014.437, l’8,2% della popolazione residente).
Ancora una volta emerge il quadro numerico di una realtà strutturata, più volte evidenziato in questi anni per superare l’immagine stereotipata dell’emergenza o mediaticamente viziata dell’“invasione”, retorica che resiste nonostante gli anni di crisi abbiano reso l’Italia sempre meno attraente: così come sottolineato nel corso della presentazione del Rapporto alla Domus Mariae di Roma da mons. Giancarlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes, il saldo delle presenza registrate, positivo di circa 90 mila unità rispetto al 2014, configura una percentuale di incremento dell’1,9% che non giustifica in alcun modo l’allarmismo. A risultare più grave, anche alla luce delle risultanze emerse in questi 25 anni, è l’incapacità di superare l’ottica emergenziale, alimentata da ultimo dalla crisi siriana, dall’affacciarsi in Europa di profughi e richiedenti asilo e della paura del terrorismo.
A rimarcare lo “sguardo non banale né pregiudiziale” sull’immigrazione proprio del Rapporto è stato il coordinatore dei lavori Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, che ha segnalato “ricchezze e difficoltà sempre legate all’incontro di uomini”, difficoltà spesso ingigantite però, a suo avviso, da “una politica irresponsabile” e dall’assenza di una visione che consideri complessità e verità del fenomeno, data dai numeri ma anche dal “volto delle persone coinvolte” che il Rapporto non dimentica. Allo stesso modo mons. Perego ha rilevato la necessità di una lettura attenta dei dati, “perché troppo spesso ci si affida alla percezione” – e i sondaggi sulla percezione che i cittadini italiani hanno della percentuale di presenza straniera in Italia registrano una sovrastima triplicata del numero reale – e si diffondono “falsificazioni che non giovano alle politiche delle migrazioni”. Il direttore generale rileva poi come l’edizione di quest’anno riproponga la scommessa sulla “cultura dell’incontro”, “perché ogni chiusura, ogni esclusione indebolisce la vita delle città e della chiesa” ed evidenzia come l’integrazione sia “l’unica strada” e “un processo biunivoco”, in assenza del quale “si alimenta la violenza e non si prepara un futuro alle giovani generazioni dell’Italia e dell’Europa”. Mons. Nunzio Galantino, segretario generale della Conferenza episcopale italiana, si è soffermato sull’importanza del linguaggio utilizzato per rappresentare il fenomeno migratorio, segnalando come i recenti fatti di Dacca rischino di alimentare “l’equazione degli imprenditori della paura: immigrazione uguale terrorismo”, facili sentenze come l’accostamento della stessa all’impoverimento e smentito da ultimo – ricorda – dal Fondo monetario internazionale che ha rilevato come l’immigrazione sia un fattore economicamente importante e di cui abbiamo bisogno. “Le politiche migratorie sono invece falsate da una lettura economicistica errata, ossia sul fatto che si accusa l’immigrato di rubare il lavoro – afferma mons. Galantino, ricordando poi come il fondamentalismo e la lettura integralista dell’Islam impediscano l’incontro e come ad essa si rischi di contrapporre “una lettura altrettanto integralista o ideologica del Vangelo”. “L’immigrazione ci costringe a guardare la storia dal punto di vista di chi non ce la fa, dei profughi impauriti, volti e storie – prosegue il segretario generale della Cei – che dovremmo almeno cercare di immaginare, tenendo presente che il percorso migratorio è solo un aspetto della vita di queste persone e della loro volontà di ricongiungersi alle proprie radici, proprio come è avvenuto e avviene per tanti italiani emigrati all’estero”. Per mons. Galantino resta possibile un’alternativa allo scontro ideologico, ma “non è la strada che sta percorrendo negli ultimi tempi questa nostra vecchia Europa”. Egli sollecita in particolare coloro che invocano la costruzione di un’Europa dei valori di impegnarsi concretamente a dare vita ad un’Unione diversa, che non sia “costruita su supremazie ma sul rispetto di tutti gli Stati membri” e di modificare “uno sguardo miope che alimenta la cultura dello scontro a scapito dell’Europa dell’incontro e della solidarietà”.
Ad illustrare i principali dati contenuti nel Rapporto è Oliviero Forti, dell’Ufficio Immigrazione della Caritas italiana, che ha ribadito il carattere strutturale della presenza straniera in Italia, cresciuta senz’altro meno impetuosamente degli anni scorsi e soprattutto per nuove nascite, dal momento che “non vi sono oggi canali di ingresso regolari in Italia”. Egli ha rimarcato come il numero dei migranti sia notevolmente cresciuto negli ultimi anni anche a livello globale – da 173 milioni nel 2000 a 243 milioni nel 2015, +41%, – residenti in Europa in primo luogo (35 milioni, il 31%), Asia (30,8%) e Nord America (22%, il Paese con il più alto numero di migranti sono gli Stati Uniti; il primo Paese europeo – e secondo al mondo – è la Germania, seguita da Russia, Arabia Saudita e Regno Unito; l’Italia è all’undicesimo posto, dopo la Spagna). Forti segnala come Italia e Spagna abbiano perso negli anni della crisi molta della loro capacità attrattiva, subendo un rallentamento importante dei flussi (la Spagna una diminuzione del 4,8%). Segnale negativo anche per la Grecia (-3,9%) Paese che ha registrato l’emigrazione di oltre 800 mila cittadini nel 2015.
Il totale delle rimesse – il denaro che gli immigrati inviano nei loro Paesi di origine – è quantificato nel 2015 in 432 miliardi di dollari, cresciute nell’ultimo anno con il tasso più basso dall’inizio della crisi (+0,4%). Dall’Italia le rimesse inviate all’estero sono 5,3 miliardi di euro, in calo dl 3,1% rispetto all’anno precedente, sia per la crisi che per “l’effetto tempo”, ossia il fatto che il flusso di denaro inviato diminuisce con l’aumentare della permanenza in Italia, poiché mutano gli stili di vita per una prospettiva di presenza di più lungo periodo (la formazione o il ricongiungimento delle famiglie, l’acquisto di abitazioni, etc.). Al 1° gennaio 2015 risultavano concessi nel nostro Paese 3.929.916 permessi di soggiorno, il 42,8% dei quali di lungo periodo. I Paesi più rappresentati sono Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina, Filippine, ma vi sono in tutto 198 nazionalità diverse. 129.887 le nuove cittadinanze attribuite, il 46% delle quali per residenza, il 14% per matrimonio.
Ancora molto segmentato il mercato del lavoro – rileva Forti – con 2.360 mila lavoratori stranieri, maggiormente rappresentati nei lavori con qualifiche più basse e con un differenziale salariale di 965 euro contro i 1357 euro dei lavoratori italiani. Richiamato anche il dato preoccupante dei working poor, lavoratori che hanno una retribuzione inferiore ai 2/3 del salario medio calcolato su base oraria e sono soprattutto donne immigrate. Un capitolo è dedicato anche al numero dei detenuti stranieri nella carceri italiane: 17.340, un terzo dei detenuti, un dato che, nonostante il calo del 4% rispetto all’anno precedente, rivela come essi siano sovrarappresentati tra la popolazione carceraria. I reati maggiormente loro ascritti sono furto, spaccio, lesioni e reati connessi all’immigrazione. Solo 95 i detenuti stranieri al 41 bis – per reati di stampo mafioso, – su un totale di 6.887.
In definitiva, sono tre i fattori che emergono in questa XXV edizione del Rapporto: la stabilità della presenza straniera in Italia – numeri sostanzialmente invariati, lungosoggiornanti, nuove cittadinanze e crescita del numero degli studenti stranieri nelle scuole italiane; la sua staticità – non vi sono quote di ingresso, si attende ancora la riforma delle legge sulla cittadinanza e non c’è un piano di integrazione; la stagnazione dovuta ad alcune criticità non risolte, come dimostrano i dati del mondo del lavoro, lo sfruttamento, la presenza nelle carceri, etc.. Il suggerimento di Forti verte anche sull’elaborazione di un piano europeo per l’integrazione, che potrebbe contribuire a sanare le disuguaglianze nelle condizioni degli stranieri presenti nei diversi Paesi membri.
Un capitolo è anche dedicato alla presenza di minori stranieri in Italia e nelle scuole in particolare. Ad illustrarlo la stessa curatrice, Elena Besozzi, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi dell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, che si sofferma sulla “visibilità ed eterogeneità” di tale presenza. I minori stranieri sono nel 2015 1.085.000, il 21,6% della popolazione straniera (erano 51 mila nel 1991). “L’emergenza di oggi – segnala Besozzi – sono i minori stranieri non accompagnati, quantificati in 12 mila al 31 dicembre 2015, ma già cresciuti in questi primi mesi del 2016 di decine di migliaia di unità, una questione non solo italiana, ma europea, perché essi non hanno sostegno, né punti di riferimento”. Gli alunni stranieri nelle scuole italiane sono 814 mila, il 9,2% della popolazione scolastica (erano 360 mila 10 anni fa, il 4%). 445 mila, cioè il 55%, sono nati in Italia da genitori stranieri ed evidenziano problematiche differenti da coloro che sono arrivati dall’estero ed hanno in prima battuta problematiche legate all’apprendimento linguistico. Nel capitolo si considera la complessità di questa presenza, le loro differenti problematiche, connesse spesso a contesti familiari più fragili e a rischio di dispersione scolastica o difficoltà di inserimento lavorativo. Sono inoltre maggiormente spinti a percorsi di formazioni professionale che precludono spesso sviluppi professionali maggiormente qualificati. Enzo Pace, invece, docente di Sociologia della religione all’Università di Padova, segnala come il Rapporto abbia descritto il percorso compiuto in questi anni di dialogo tra differenti culture e religioni nel nostro Paese, un dialogo che è divenuto un “esperimento collettivo, sociale e culturale”, con investimenti e il coinvolgimento delle realtà locali in “occasioni di incontro concreto che hanno consentito al Paese di reggere sino ad oggi” l’urto della crisi e delle tensioni allargate del terrorismo internazionale. Si sofferma sull’importanza della cultura dell’incontro, tema scelto quest’anno per l’impostazione del Rapporto, mons. Guerino Di Tora, presidente della Fondazione Migrantes, che segnala l’attenzione all’altro che ne è alla base, ricordando come il migrante non sia solo un lavoratore, ma persona e componente di una famiglia che va tutelata in quanto nucleo della società. Per il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, interviene Rosa De Pasquale, che sottolinea l’impegno del Miur per l’inclusione scolastica e l’integrazione degli stranieri, senza dimenticare le diverse esigenze delle seconde generazioni che vanno ugualmente accompagnate in un percorso di protagonismo. “Gli alunni stranieri sono diventati una realtà strutturale della nostra scuola, modificandone il paesaggio culturale e sociale; inizialmente possono aver creato uno spaesamento e posto questioni nuove cui abbiamo cercato e cerchiamo costantemente e quotidianamente di rispondere – afferma De Pasquale, richiamando anche l’Osservatorio sull’integrazione degli alunni stranieri attivato nel 2014 e che sarà chiamato ad un rinnovato impegno sui temi dell’inclusione e della interculturalità. Sulle esperienze di accoglienza dei territori si sono soffermati don Gianni De Robertis, direttore regionale della Migrantes Puglia e don Giovanni Perini, delegato regionale di Piemonte e Valle D’Aosta, che non hanno nascosto criticità riscontrate per la paura del diverso, anche all’interno delle comunità parrocchiali. Don Perini in particolare ha richiamato la “necessità di una conversione a livello umano” per riconoscere nello straniero un nostro fratello e riflettere su come i drammi vissuti, a monte della fuga, siano dovuti agli effetti di “un colonialismo politico che è diventato culturale ed economico” ed chiama in causa dunque anche le nostre società.
Il presidente dell’Anci, Piero Fassino, già sindaco di Torino, ha ricordato come “dolore, sofferenza e contraddizioni si verifichino in tutti le vicende connesse all’emigrazione”, e come “l’istinto, di fronte a ciò che non conosciamo, sia quello di mettere le mani avanti”. “L’integrazione che noi auspichiamo, visto il carattere strutturale dell’immigrazione anche oggi richiamato, è perciò frutto di politiche attive e non di spontaneità. Non basta dire che siamo tutti figli di Dio, anche se è vero – prosegue Fassino, – ma occorre impegnarsi a costruire conoscenze, relazioni, formazione, perché solo politiche attive possono aiutare a superare il conflitto”. Il presidente ricorda poi come il modello di integrazione italiano sia diverso dall’assimilazionsimo, perché tiene alla dimensione delle pari opportunità così come alla salvaguardia dell’identità e debba tendere a generare il riconoscimento dell’identità di tutti. Si tratta di un riconoscimento che chiama in causa la politica, a suo dire, e non può essere demandato unicamente all’esito di una possibile prospettiva di ripresa economica. Egli rimarca inoltre le potenzialità di “un approccio diffuso all’immigrazione”, che può essere replicato con successo anche nella gestione dell’emergenza rifugiati. “La diffusione sul territorio di collettività straniere può favorire le possibilità di relazione e di conoscenza – conclude Fassino, sottolineando come molto abbiano fatto gli enti locali in tale percorso.
Per il Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo interviene Paolo Masini, che segnala tra le attività promosse dal Mibact il progetto “Migrarti” per la valorizzazione delle opportunità culturali legate all’immigrazione: attraverso il bando sono stati finanziati 46 progetti artistici – ma oltre 1000 sono stati quelli presentati – legati al territorio e che hanno coinvolto 5000 realtà associative, un’esperienza che annuncia verrà riproposta l’anno prossimo.
Le conclusioni sono state affidate a don Francesco Soddu, direttore della Caritas italiana, che ha rimarcato come sia “sempre una sfida raccontare quanto la nostra realtà sia multiculturale, molto di più di quanto si pensi”. Per evitare che si debba “ripartire sempre da capo”, egli sollecita un “cambio di prospettiva” a partire da una maggiore conoscenza della realtà e grazie ad un intervento della politica che potrebbe concretizzarsi – suggerisce don Soddu – a partire dall’approvazione della normativa sulla cittadinanza, ferma al Senato, e con il diritto di voto amministrativo agli stranieri che risiedono nelle nostre città. Sollecita inoltre azioni per il superamento delle disuguaglianze economiche e sociali evidenziate nel Rapporto e “l’attuazione del principio di solidarietà, inscritto nella nostra Costituzione, in Italia ed in Europa”. “L’integrazione avviene solo se tutta la società contribuisce a questo processo; l’intercultura non è folklore ma un’istanza politica la cui costruzione è nelle mani di tutti noi. Non basta convivere nella società – conclude, – occorre costruirla”.

(Viviana Pansa – Inform)

“Le migrazioni qualificate in Italia. Ricerche, statistiche, prospettive”

ROMA – Una riflessione sul nuovo status dell’Italia, tornato ad essere in questi ultimi anni Paese di emigrazione per la consistenza numerica dei connazionali espatriati, e sul profilo progressivamente più qualificato di questi flussi nel volume “Le migrazioni qualificate in Italia. Ricerche, statistiche, prospettive” curato dall’Istituto di Studi politici S. Pio V ed edito dal Centro studi e ricerche Idos presentato il 30 giugno scorso all’Auditorium di via Rieti a Roma.Il testo delinea un quadro preciso dell’emigrazione italiana verso l’estero, evidenziandone un deciso aumento con l’avanzare della crisi economica: dal 2011 in poi il numero di connazionali che sono espatriati è cresciuto mediamente del 22% l’anno e le cancellazioni dalle anagrafi italiane hanno superato nel 2015 le 100 mila unità, sfondamento che ha solo un precedente nel 2004 e che ci riporta molto indietro nel tempo, a flussi migratori risalenti ai primi anni Settanta. L’analisi rileva poi come all’incremento dei numeri corrisponda una diminuzione dell’età media di chi lascia la Penisola (nel 2014 oltre la metà di coloro che emigrano ha un età compresa tra i 18 e i 39 anni, il 20% fra 0 e 17 anni) e una sempre maggiore qualificazione in termini di titoli di studio (la quota di coloro che possiedono un diploma di laurea è aumentata dal 12% del 2002 al 30% del 2014, il numero di laureati e diplomati ruota intorno alle 25 mila unità nel 2015), elemento che non fa che aggravare la condizione di un Paese come il nostro che per numero di laureati è lontano dalla media europea (la percentuale di laureati sull’intera popolazione italiana è del 23,9%, di contro ad una media Ue del 37,9%). Il numero dei laureati italiani residenti all’estero – quantificati nel 2015 in circa 400 mila – è però compensato dal livello di formazione degli stranieri residenti nel nostro Paese – poco più di 500 mila hanno una laurea, – un dato che tuttavia non genera l’equilibrio sperato perché solo l’11% degli occupati stranieri possiede tale titolo di studi, di contro al 21% degli occupati italiani. L’analisi evidenzia così come, in assenza di interventi, l’incapacità di valorizzare le qualifiche più elevate da parte del mercato dal lavoro italiano determini una dispersione del capitale umano degli stranieri presenti nel nostro Paese e non consentirà un’inversione di tendenza al flusso di laureati in uscita dall’Italia.“L’analisi rientra nel campo di interesse dell’Istituto che ha approfondito in questi anni le ricadute sul piano socio-economico della crisi, tra cui emerge appunto l’emigrazione e la cosiddetta fuga dei cervelli – afferma il presidente dell’Istituto San Pio V, Antonio Iodice, rilevando “amaramente” come i dati dimostrino quanto il “merito non sia premiante in Italia e quanto poco si investa in ricerca e sviluppo, sia da parte del committente pubblico che di quello privato”. Si tratta infatti dell’1,29% del Pil (la media europea è del 2,03%), di cui solo lo 0,72% riguarda le imprese private (contro una media Ue dell’1,3%). Per Iodice questi dati testimoniano “un deficit rivelatore della miopia del capitalismo italiano, che non riconosce l’importanza della ricerca e quando destina risorse a tale scopo lo fa spesso per sponsorizzazione o, peggio, considerandolo una forma di elemosina”. E questo “anche se è risultato evidente come le imprese che hanno resistito al fragore della crisi sono state quelle che hanno operato questo tipo di investimenti”. La “scommessa” dell’Istituto è suscitare pertanto una discussione sull’argomento, attraverso un’ampia diffusione dl volume che raccoglie anche i risultati di analisi italiane e straniere sul tema. L’auspicio è che i nodi più importanti – la perdita che comporta l’investimento in formazione di un laureato (per ogni laurea breve si stima un costo di 150 mila euro) o un dottore di ricerca (oltre 200 mila euro) che lascia il Paese e la mancata valorizzazione delle competenze degli stranieri in Italia – possano essere prima conosciuti e poi affrontati dalla politica non unicamente in chiave “economicistica”, ma anche per non disperdere il patrimonio di entusiasmo e creatività dei giovani italiani e per garantire una soluzione sul piano “umano, della civiltà e del diritto” alle tante problematiche oggi presenti.Ad illustrare il contenuto del volume i curatori Benedetto Coccia e Franco Pittau. Il primo ha rilevato come il tentativo di andare oltre alle semplificazioni giornalistiche sia necessario ad impostare politiche decisive per il futuro del Paese, ricordando come si debba parlare oggi di “giovani generazioni che sono già globalizzate per quanto riguarda gli studi”. “31 mila giovani italiani hanno deciso di trascorrere un periodo di studio all’estero nel 2015, con il programma Erasmus principalmente, ma anche per svolgere esperienze di tirocinio. In Italia abbiamo invece 100 mila studenti stranieri – afferma Coccia, rilevando come sia essenziale la “circolazione dei cervelli” e che l’Italia divenga maggiormente attrattiva per i talenti. “Altro pregiudizio da sfatare è quello legato all’immigrazione: coloro che giungono in Italia hanno un livello di istruzione pari o superiore a quello della media italiana” – avverte.Si sofferma su alcuni dati Franco Pittau, come quelli relativi agli studenti internazionali, 5 milioni nel mondo, oltre 400 mila in Gran Bretagna (1 studente su 6 è straniero), media che scende per l’Italia a 1 ogni 23; alla insufficiente valorizzazione dei laureati in Italia e al fatto che solo un quarto dei manager presenti nel nostro Paese ha tale livello di formazione, mentre la media europea è del 50%; all’elevato tasso di inattivi e al costo per le famiglie anche dei cosiddetti Neet (giovani che non studiano né lavorano); al dato preoccupante emerso in una recente ricerca e riguardante la volontà dei giovani italiani di lasciare il Paese (6 su 10). “Occorre intervenire sulla carenza di posti di lavoro, sul fenomeno dell’occupazione non confacente con il titolo di studio posseduto, sul lavoro nero e sulla mancata valorizzazione del merito” afferma Pittau, sollecitando un maggiore investimento in ricerca e sviluppo e rilevando come il fenomeno delle migrazioni qualificate non sia “un ostacolo, ma un sostegno allo sviluppo del Paese”.Di seguito l’intervento di Olena Ponomareva, dottore di ricerca all’Università Sapienza di Roma, che si è soffermata in particolare sulle ragioni che impediscono la compensazione delle competenze dei laureati che lasciano il Paese da parte degli stranieri residenti in Italia, parlando di “una stratificazione anche su base etnica del mercato del lavoro italiano”, che ostacola la mobilità sociale e occupazionale dei secondi. Per Ponomareva tale dinamica è anche dovuta all’assenza di un modello italiano di integrazione, anche se generalmente inteso differente da quello assistenzialistico e multiculturale, sperimentato in altri Paesi, e ad una percezione dell’identità sociale degli stranieri “piuttosto negativa”. Secondo la studiosa il modello italiano dovrebbe ricalcare quello della “regulated openness”, con un sistema di regolamentazione più stringente ma legato ad una più approfondita conoscenza della realtà e delle dinamiche del mercato del lavoro. Allo stesso modo sollecita interventi per favorire l’internazionalizzazione delle università italiane, suggerendo anche un investimento sulla promozione della lingua italiana all’estero e l’istituzione di un’agenzia nazionale per la gestione delle mobilità di studenti e docenti, come il British Council o il Daad tedesco. Mauro Albani dell’Istat ritorna sui dati che certificano per gli stranieri residenti in Italia un livello di istruzione pari o superiore a quello degli italiani e ne mostra la correlazione con il luogo di origine (le collettività più istruite sono quelle romene, ucraine e polacche). Si sofferma poi sui numeri dell’emigrazione italiana – raccolti nel contributo al volume di Domenico Gabrielli – ricordando come, anche se il saldo migratorio resta positivo, l’Italia non sia più fra i principali Paesi di immigrazioni dell’Ue: se consideriamo il numero dei flussi dei connazionali dal 2013 siamo diventati un “Paese di emigrazione”, perché il numero di italiani che lasciano l’Italia per emigrare permanentemente è superiore a quello dei cittadini stranieri degli altri Paesi europei che giungono in Italia, compresi quelli dei Paesi a “forte pressione migratoria” dell’Est europeo. Albani si sofferma inoltre sull’esodo in Germania e Gran Bretagna, le due mete preferite dai connazionali: la Germania è, tra i Paesi europei, quello con il più alto tasso di immigrazione (circa 354 mila gli immigrati nel 2013, 47 mila gli italiani, cresciuti nel 2014 a 55 mila), in esso negli ultimi 5 anni si stima siano giunti 200 mila connazionali; segue la Gran Bretagna, che è meta preferita dei laureati e anche di coloro il cui trasferimento è spesso solo temporaneo.Su migrazioni qualificate e ricerca scientifica in Italia si sofferma invece Carla Collicelli, advisor scientifico del Censis, che evidenzia il problema del “capitale inagito”, ossia dell’incapacità di utilizzare le risorse presenti nel nostro Paese, proponendo occupazioni non adeguate al livello di formazione acquisito e contratti volatili. Pur con tutte le difficoltà il numero di pubblicazioni scientifiche è rilevante, ma sono gli investimenti in ricerca il tasto dolente, anche se a giudizio di Collicelli in questi ultimi anni “qualcosa si sta muovendo in termini positivi”. Richiamati a tal proposito alcuni provvedimenti su risorse, tutela dei brevetti e dei marchi e ricerca adottati in particolare da Miur e Mise, o settori particolarmente innovativi come quello della ricerca farmacologica e biomedica che rappresentano un “intelligente modello da valorizzare per il mix tra pubblico e privato”.Il presidente del Centro studi e ricerche Idos, Ugo Melchionda, sottolinea come il mondo dell’emigrazione sia profondamente cambiato e come tale trasformazione a suo avviso non sia percepita dal Parlamento, che dovrebbe invece articolare in base al quadro fornito le politiche migratorie. “Perdiamo con i laureati risorse preziose e non sappiamo valorizzare quelli che restano”, afferma Melchionda, definendo la segmentazione del mercato del lavoro sopra richiamata “una discriminazione silenziosa” a danno dell’integrazione ma anche della tenuta della società intera, “perché si illudono giovani che poi, una volta formati, non hanno prospettive di realizzazione in Italia”. Per il presidente Idos questi sono i due temi che decideranno il futuro del nostro Paese: la “competizione per i talenti, che oggi ci vede perdenti, rischiando di condannarci alla marginalità” e una governance delle migrazioni che garantisca l’integrazione e la tenuta sociale dl Paese e non “un’integrazione posticcia, o arrangiata, come quella attuale”.Risponde alle sollecitazioni Marco Fedi, parlamentare eletto nella ripartizione Africa, Asia, Oceania e Antartide, che si impegna a continuare il lavoro di approfondimento sui temi del volume anche in sede parlamentare, evidenziando come da tempo si chieda al Governo di aprire una “fase di discussione autentica” con l’istituzione di un Osservatorio sulle migrazioni, così da elaborare indirizzi politici aderenti ai cambiamenti rilevati. “Io vengo dall’Australia, un Paese – ha ricordato Fedi – che ha attratto e attrae ancora oggi molta immigrazione e che ha fatto delle politiche del multiculturalismo anche la sua fortuna”. Il parlamentare ritiene infatti che tale scelta politica, anche se attualmente messa molto in discussione, abbia funzionato “dando risultati e garanzie molto importanti, per laureati e non, perché ha creato un ambiente che consente la tutela dei diritti fondamentali”. Fedi ha richiamato tra le questioni aperte, quelle della normativa sulla cittadinanza italiana, cittadinanza “che alcuni credono sia punto di arrivo del processo di integrazione, mentre per me è parte del percorso e se non ci muoviamo sul fronte dell’integrazione – ha aggiunto – sarà difficile mettere in campo politiche di attrazione rivolte ai talenti, così come da voi auspicato”. Alla base manca dunque un modello di integrazione, un “contesto generale” senza il quale i singoli provvedimenti non possono risultare efficaci, che garantisca standard minimi di accoglienza per coloro che giungono in Italia ma anche, d’altra parte, che “coloro che decidono di emigrare lo facciano per libera scelta”. Si tratta di una problematica complessa su cui “non incide solo la carenza di risorse, ma spesso – ricorda Fedi – anche un’assenza di coordinamento, che disperde le poche risorse disponibili”. Un coordinamento che è invece necessario sia per l’internazionalizzazione della ricerca scientifica e del sistema Paese – Fedi ricorda in particolare alcune iniziative suggerite per stabilire una rete tra ricercatori italiani o quella sulla costituzione di un Comitato interministeriale di promozione della ricerca italiana all’estero – e per le politiche di integrazione – in questo caso potrebbe essere percorribile l’istituzione di un consiglio nazionale per l’integrazione ed il multiculturalismo.

Viviana Pansa – Inform

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