“Su par Luc”, il 3 novembre 1930, nasce Susin Giovanni “Jale”. È il quarto di dodici figli, preceduto da tre sorelle. Nonostante quegli anni tra le due guerre fossero magri, il pranzo e la cena c’erano sempre, e non solo minestra e patate o polenta, sulla tavola. La sua spina nel fianco era la scuola. Il problema lo risolse, per lui, una dimenticanza che fu fatale: si dimenticò di portare qualcosa alla maestra e dalla terza classe si ritrovò in seconda. Con un gran sospiro, “sconsolato”, piantò tutto e rimase ad aiutare i genitori a casa e nei campi. Termina la seconda guerra ed una sorella emigra in Svizzera; qualche anno dopo ci va anche lui, ma vi rimane solo per un anno. “Non ne potevo più di patate e sidro (la bibita di mele) mattina e sera, oggi ed anche domani”. Rientra e nel ’52 emigra in Canada dove un cugino gli aveva detto che il lavoro non mancava. Arriva a Toronto, bello e speranzoso. Non era però tutto così facile come credeva: il lavoro bisognava cercarselo e non era che ce ne fosse proprio così tanto. “Tutti la chiamavano America, il paese dei sogni, ma di America c’era solo il continente” mi dice. Nel ‘55 si sposa e dal matrimonio nascono un figlio ed una figlia. Uno dopo l’altro gli anni passano, finché nel ’57 trova una nuova ditta e viene mandato al polo nord; le temperature arrivavano anche a -75°. Una volta arrivato lì, gli dettero i mezzi di sopravvivenza: una canna, alcuni ami e altrettanti lacci. “Per la prima volta mi sono messo a piangere. Anche volendo come si poteva pescare quando il ghiaccio era spesso più di quattro o cinque metri? È vero che ci davano anche scatolette ma sempre quelle”. L’avventura durò solo sei mesi e poi, il rientro tra i vivi. “Qui, assieme ad un altro fonzasino e con soli 200 dollari in tasca ciascheduno, demmo inizio ad una attività di movimento terra in proprio. Fu molto dura. Dovevamo cercarci i clienti tra i privati e non eri mai certo di essere pagato. Alla lunga siamo riusciti ad ottenere appalti direttamente dal governo e fu la nostra fortuna. Adesso i soldi arrivavano puntuali e sicuri, dandoci la possibilità di crescere fino a 50 operai, ognuno dei quali aveva una sua macchina operatrice. “Il lavoro consisteva nel costruire barriere anti alluvione sui fiumi, laghi o altrove fosse necessario” è sempre il suo racconto. Nel 1960 ritorna in Italia dopo diciotto anni quando i genitori erano purtroppo già morti. L’emigrazione fu il mezzo per dimostrare di valere anche se aveva frequentato poco la scuola. L’ingegno c’era, bastava solo metterlo a frutto. E così fu. “Forse sarei riuscito a fare qualcosa anche se fossi rimasto in Italia” mi dice convinto. Intorno alla metà degli anni ottanta decide di smettere, e così cede tutto al figlio del suo socio. “La nostalgia, questa è sempre stata la più grande sofferenza” mi racconta tra una domanda e l’altra. Da ciò le sue sempre più frequenti e lunghe presenze in paese. “Comunque grazie Canada per il lavoro e benessere” ma, su tutto, sempre: “su a Luc”, per il perdurare dell’affettività mai venuta meno. Il 18 gennaio scorso è purtroppo venuto a mancare. Lo voglio ricordare così, con le confidenze fattemi. Ciao “Nani”.
Gianluigi Bazzocco
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